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Nei paese della bugìa la verità è una malattia





 

Abbiamo lasciato zia Pannocchia sulla porta di casa, ad ascoltare i primi miagolii dei suoi gatti, felice come un musicista a cui capitasse la fortuna di scoprire una sinfonia inedita di Beethoven, rimasta per cento anni in un cassetto.

Abbiamo lasciato Romoletta mentre, indicata a Zoppino la via della soffitta di Bananito, tornava a casa di corsa. Poco dopo zia e nipote dormivano tranquille nei loro letti, senza sospettare che le lettere di Calimero avevano già messo in movimento la macchina della polizia.

Alle tre di notte alcuni pezzi di questa macchina, rappresentati da un plotone di gendarmi, invasero la casa senza tanti complimenti6, costrinsero la vecchia signora e la bimba a vestirsi in tutta fretta e le trasportarono alla prigione.

Il comandante dei gendarmi, dopo aver consegnato le due prigioniere al comandante della prigione, avrebbe voluto tornarsene a dormire, ma aveva fatto i conti senza la pignoleria del suo collega.

– Cos'hanno fatto queste due persone?

– La vecchia insegnava ai cani a miagolare, la bambina è quella che scriveva sui muri. Due delinquenti pericolose, Nei tuoi panni io le ficcherei nei sotterranei e rafforzerei la guardia.

– Quello che devo fare lo so io, – ribatte il comandante della prigione. – Adesso sentiremo cosa dicono.

Zia Pannocchia fu interrogata per prima. L'arresto non l'aveva spaventata. Niente avrebbe potuto turbare la sua felicità, dopo che i suoi sette gatti, finalmente, avevano ritrovato la loro vera voce. Perciò con molta calma rispose a tutte le domande.

– No, non erano cani. Erano gatti.

– Il rapporto dice che erano cani.

– Erano gatti, di quelli che prendono i topi.

– Sono appunto i cani che prendono i topi.

– No, signore, sono i gatti. E sono i gatti che miagolano. I miei abbaiavano, come tutti i gatti della città. Ma stanotte, per fortuna, per la prima volta hanno miagolato.

Questa donna è pazza, – disse il comandante della prigione, – il suo posto sarebbe il manicomio. Insomma, signora, che cosa ci andate dicendo?

– La verità, soltanto la verità.

– Ah, ma allora la cosa è chiara! – esclamò il comandante della prigione. – È matta da legare. Non posso accettarla: questo è un carcere per sani di mente. I matti vanno al manicomio.

E nonostante le proteste del comandante dei gendarmi, che vedeva sfumare la prospettiva di un buon sonno, gli riconsegnò zia Pannocchia e tutto l'incartamento che la riguardava. Quindi interrogò Romoletta.

– Sei tu che hai scritto sui muri?

– È la pura verità.

– Sentito? – esclamò il comandante della prigione. – Pazza anche questa. Al manicomio! Prenditi anche la ragazzina e lasciami in pace. Non ho tempo da perdere con i matti.

Nero di rabbia, il comandante delle guardie ricaricò sul furgone le due prigioniere e le portò al manicomio, dove furono subito accettate e rinchiuse in un grande camerone, insieme agli altri pazzi che si erano lasciati sorprendere a dire la verità.

Ma gli avvenimenti di quella notte non debbono considerarsi finiti. Il comandante delle guardie, infatti, tornato nel suo ufficio, chi trovò ad aspettarlo? Calimero La Cambiale, col cappello in mano e il suo più brutto sorriso sulla bocca.

– E voi cosa volete?

– Eccellenza, – bisbigliò Calimero inchinandosi e raddoppiando i sorrisi. – Sono qui per i centomila talleri falsi. La ricompensa mi spetta, perché per merito mio11 i nemici del sovrano sono stati arrestati.

– Già, voi siete quello che ha scritto le lettere, – disse pensieroso il comandante. – Ma saranno poi vere tutte le cose che avete scritto?

– Eccellenza! – gridò Calimero, – È la pura verità, lo giuro!

– Ah, ah, – esclamò a sua volta il capo delle guardie, illuminandosi di un malvagio sorriso. – Ecco uno che sostiene di dire la verità. Amico mio, avevo già capito che dovevate essere un po' pazzo, ma voi stesso me ne avete dato la prova. Avanti, al manicomio!'

– Eccellenza, per carità! – gridava Calimero, gettando il cappello per terra e calpestandolo in un accesso di disperazione. – Non vorrete farmi questo torto! Sono un amico della bugia, l'ho scritto anche nella lettera!

– Ma sarà vero che siete un amico della bugia?

– È vero! È verissimo! Lo giuro!

– Ci siete cascato di nuovo! – trionfò il capo delle guardie. – Per due volte mi avete giurato che dite la verità. Via, via, poche storie. Al manicomio avrete tempo di calmarvi. Per ora, siete proprio un pazzo furioso, e lasciarvi in circolazione costituirebbe un attentato all'ordine pubblico.

– Voi volete intascare al mio posto la ricompensa! – gridava Calimero, dibattendosi tra le braccia dei gendarmi.

– Lo sentite? È proprio in preda a un accesso. Mettetegli la camicia di forza e il bavaglio. Quanto alla ricompensa, parola mia che non gliene toccherà un centesimo, fin che nei miei vestiti ci saranno tasche abbastanza per metterla al sicuro.

Così anche Calimero finì al manicomio, dove fu rinchiuso da solo in una cella imbottita.

A questo punto il comandante delle guardie avrebbe voluto andare a letto, ma da più parti della città cominciarono a giungere segnalazioni allarmate:

– Pronto, polizia? C'è un cane che miagola nei dintorni. Potrebbe essere arrabbiato. Mandate qualcuno.

– Pronto, polizia? Bene, che fanno gli accalappiacani? Sotto il mio portone c'è un cane che miagola da mezz'ora. Se sarà lì ancora domattina, nessuno uscirà di casa per paura di essere morso.

Il capo dei gendarmi mandò subito a chiamare tutti gli accalappiacani, li divise in tante pattuglie, rinforzate da gendarmi scelti, e li sguinzagliò per la città alla ricerca dei «cani che miagolavano», ossia, come il lettore ha ben compreso, dei sette mici di zia Pannocchia.

Il più piccolo di essi fu catturato dopo appena mezz'ora. Era tanto infervorato a miagolare che non si accorse di essere circondato. Quando poi si vide tutta quella gente attorno, pensò che lo stessero festeggiando e miagolò con più entusiasmo.

Un accalappiacani gli si accostò con viso amichevole, lo accarezzò un paio di volte sulla schiena, poi lo afferrò decisamente per la pelle del collo e lo ficcò nel suo sacco.

Il secondo dei sette fu preso mentre, arrampicato in sella al cavallo di un monumento, arringava a miagolii una piccola folla di gatti, ironici e sornioni, che poi salutarono la sua cattura abbaiando orrendamente.

Un terzo fu scoperto perché se l'era presa con un cane.

– Sciocco, che vai miagolando? – gli diceva.

– E cosa dovrei fare, scusa? Sono un gatto, miagolo, – rispondeva il cane.

– Sciocco due volte, ti sei mai guardato allo specchio? Sei un cane e devi abbaiare. Io sono un gatto, a me tocca miagolare. Senti: miao, miao, miaaaao!!!

Insonnma, finirono col litigare, e gli accalappiacani, senza tante storie, li acchiapparono tutti e due, ma poi rilasciarono il cane, perché aveva il diritto di miagolare.

Furono catturati il quarto, il quinto, il sesto.

– Ormai ne manca uno solo, – si dicevano l'un l'altro gli accalappiacani e le guardie, per vincere la stanchezza. E quale fu la loro sorpresa, dopo ore di ricerche, quando si trovarono davanti non uno, ma due gatti miagolanti!

– Si sono moltiplicati, – osservò una guardia.

– Dev'essere contagioso, – aggiunse un accalappiacani.

Dei due gatti, uno era il settimo della famiglia di zia Pannocchia, l'altro era più semplicemente quel Fido che abbiamo incontrato in uno dei passati capitoli e che, a furia di riflessioni, era giunto alla conclusione che forse Zoppino non aveva tutti i torti a consigliargli di miagolare: una volta fatta la prova, non gli sarebbe riuscito più di abbaiare nemmeno se avesse voluto.

Fido si lasciò catturare senza resistenza. Il settimo, che era il più vecchio della compagnia, fu abbastanza svelto da arrampicarsi su un albero e di lassù si diverti per un pezzo a far ammattire i suoi cacciatori, miagolando le più belle arie del repertorio gattesco.

Una gran folla si radunò all'insolito spettacolo e, come succede, si divise in due partiti. C'erano i benpensanti, che incoraggiavano le guardie a mettere fine allo scandalo. E c'erano i burloni o forse non soltanto burloni, che facevano il tifo per il gatto e lo incoraggiavano rifacendogli il verso:

– Miao! Miao!

C'era anche una gran folla di gatti che abbaiavano contro il loro collega, un po' per invidia un po' per rabbia. Ogni tanto qualcuno di loro veniva colpito dal contagio e cominciava a miagolare: gli accalappiacani gli piombavano subito addosso e lo ficcavano nel loro sacco.

Si dovettero chiamare i pompieri e dar fuoco all'albero, per farne discendere quell'ostinato miagolatore. Così la folla si godette anche un piccolo incendio, e tornò a casa soddisfatta.

I gatti che miagolavano risultarono, a conti fatti, una ventina: furono portati tutti al manicomio, perché a modo loro dicevano la verità, dunque dovevano essere gatti matti.

II direttore del manicomio non sapeva dove metterli. Pensa e ripensa, li fece portare tutti nella cella di Calimero La Cambiale. Figuratevi se lo spione fu contento di quella compagnia, che gli ricordava l'origine della sua sventura! Nello spazio di due ore diventò pazzo sul serio, e cominciò a miagolare e a fare le fusa. Credeva di essere un gatto anche lui e quando un topo imprudente attraversò la cella fu il primo a saltargli addosso: il topo gli lasciò in bocca la coda e si salvò nel suo pertugio.

Zoppino, raccolte tutte queste informazioni, stava tornando a casa per riferirle a Gelsomino quando udì la voce del tenore attaccare una di quelle famose canzoncine del suo paese che gli avevano procurato tanti grattacapi.

«Questa volta, – pensò Zoppino, – posso scommettere tutte e quattro le mie zampe, compresa quella nuova, che Gelsomino si è addormentato e sta sognando. Se non mi affretto, le guardie arriveranno prima di me».

Sotto casa trovò raccolta una gran folla ad ascoltare. Nessuno si muoveva, nessuno parlava. E se di quando in quando un vetro del vicinato andava in pezzi, nessuno si affacciava a protestare.

Il canto meraviglioso sembrava aver operato un incantesimo. Zoppino notò due giovani guardie confuse fra la gente, con la stessa espressione rapita in volto. Le guardie, come sapete, avevano l'ordine di arrestare Gelsomino: ma quelle due lì non ne avevano proprio l'intenzione.

Purtroppo altre guardie stavano sopraggiungendo e il loro capo si faceva largo tra la folla con la frusta: doveva essere duro d'orecchi, e la musica di Gelsomino non lo incantava.

Zoppino fece le scale di corsa e piombò nella soffitta come un fulmine.

– Sveglia! Sveglia! – gridò, facendo con la coda a Gelsomino il solletico sotto il naso. – Il concerto è finito! Arriva la polizia!

Gelsomino aprì gli occhi, se li stropicciò vigorosamente e domandò:

– Dove sono?

– Ti dirò dove sarai tra poco, se non ci muoviamo, – rispose Zoppino, – sarai in gattabuia!

– Ho cantato ancora?

– Vieni, scappiamo per i tetti.

– Tu parli da gatto, ma io non sono abituato a ballare sulle tegole.

– Ti reggerai alla mia coda.

– E dove andremo?

– Via di qua, questo è sicuro. E in qualche posto arriveremo.

Zoppino saltò per primo dalla finestra della soffitta sul tetto

sottostante e a Gelsomino non rimase che seguirlo, chiudendo gli occhi per non essere colto dalle vertigini.

 

Date: 2015-11-13; view: 278; Нарушение авторских прав; Помощь в написании работы --> СЮДА...



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