Ãëàâíàÿ Ñëó÷àéíàÿ ñòðàíèöà


Ïîëåçíîå:

Êàê ñäåëàòü ðàçãîâîð ïîëåçíûì è ïðèÿòíûì Êàê ñäåëàòü îáúåìíóþ çâåçäó ñâîèìè ðóêàìè Êàê ñäåëàòü òî, ÷òî äåëàòü íå õî÷åòñÿ? Êàê ñäåëàòü ïîãðåìóøêó Êàê ñäåëàòü òàê ÷òîáû æåíùèíû ñàìè çíàêîìèëèñü ñ âàìè Êàê ñäåëàòü èäåþ êîììåð÷åñêîé Êàê ñäåëàòü õîðîøóþ ðàñòÿæêó íîã? Êàê ñäåëàòü íàø ðàçóì çäîðîâûì? Êàê ñäåëàòü, ÷òîáû ëþäè îáìàíûâàëè ìåíüøå Âîïðîñ 4. Êàê ñäåëàòü òàê, ÷òîáû âàñ óâàæàëè è öåíèëè? Êàê ñäåëàòü ëó÷øå ñåáå è äðóãèì ëþäÿì Êàê ñäåëàòü ñâèäàíèå èíòåðåñíûì?


Êàòåãîðèè:

ÀðõèòåêòóðàÀñòðîíîìèÿÁèîëîãèÿÃåîãðàôèÿÃåîëîãèÿÈíôîðìàòèêàÈñêóññòâîÈñòîðèÿÊóëèíàðèÿÊóëüòóðàÌàðêåòèíãÌàòåìàòèêàÌåäèöèíàÌåíåäæìåíòÎõðàíà òðóäàÏðàâîÏðîèçâîäñòâîÏñèõîëîãèÿÐåëèãèÿÑîöèîëîãèÿÑïîðòÒåõíèêàÔèçèêàÔèëîñîôèÿÕèìèÿÝêîëîãèÿÝêîíîìèêàÝëåêòðîíèêà






Se un pittore sa il suo mestiere le cose belle diventano vere





 

Bananito era rimasto a bocca aperta ad ascoltare Gelsomino e Zoppino che si raccontavano le loro peripezie. In mano teneva sempre Il coltello, ma ormai non ricordava nemmeno più perché lo avesse Impugnato.

– Che cosa voleva farne? – gli chiese Zoppino, sospettoso.

– È quello che mi sto domandando anch'io, – rispose Bananito. Ma un'occhiata in giro bastò a farlo ripiombare nella più nera disperazione: i suoi quadri erano sempre là, brutti come nel capitolo nono di questo racconto.

– Vedo che lei è un pittore, – disse rispettosamente Gelsomino, che non aveva ancora avuto il tempo di fare questa scoperta.

– Credevo, – mormorò tristemente Bananito, – credevo di essere un pittore. Ma sarà meglio che cambi mestiere. E sceglierò un mestiere col quale i colori c'entrino il meno possibile. Per esempio, farò il becchino, e avrò a che fare solo con il nero.

– Anche nei cimiteri ci sono i fiori, – osservò Gelsomino. – Su questa terra, di nero proprio nero e soltanto nero non c'è niente.

– Il carbone, – disse Zoppino.

– Ma a dargli fuoco diventa rosso, bianco, azzurro.

– L'inchiostro nero è nero e basta.

– Ma con l'inchiostro nero si possono scrivere storie colorate e allegre.

– Mi arrendo, – disse Zoppino, – e meno male che non ci ho scommesso sopra una zampa. Adesso me ne resterebbero soltanto due.

– Qualcosa farò, – sospirò Bananito.

Gelsomino, aggirandosi per la soffitta, si fermò davanti al ritratto di un uomo con tre nasi, che già aveva destato la sorpresa di Zoppino.

– Chi è? – domandò.

– È un grande ciambellano di corte.

– È fortunato ad avere tre nasi: sentirà i profumi motiplicati per tre.

– Oh, è tutta una storia. Quando mi ha incaricato di fargli il ritratto ha preteso che gli facessi quei tre nasi. Abbiamo tanto discusso: io avrei voluto fargliene uno solo, poi suggerii che si accontentasse di due. Ma non c'è stato niente da fare. O tre o niente ritratto. E vedete cos'è venuto fuori? Uno spaventabambini, una cosa da mostrare per castigo a quelli che fanno i capricci.

– E anche questo cavallo, – domandò Gelsomino, – è un cavallo di corte?

– Cavallo? Ma non vede che è una mucca?

Gelsomino si grattò un orecchio.

– Sarà una mucca, ma a me pare un cavallo. O meglio, sarebbe un cavallo se avesse quattro zampe: invece ne ha tredici. Con tredici zampe si potevano fare tre cavalli con l'avanzo di una zampa.

– Ma le mucche hanno tredici zampe, – protestò Bananito, – lo imparano i bambini a scuola.

Gelsomino e Zoppino si guardarono sospirando e lessero negli occhi l'uno dell'altro lo stesso pensiero: «Se fosse un gatto bugiardo, gli Insegneremmo a miagolare. Ma che cosa possiamo insegnare a questo poveretto?».

– Secondo me, – disse Gelsomino, – il quadro diventerebbe più bello se si togliesse qualche zampa.

– Già, e tutti mi rideranno dietro, e i critici proporranno di mettermi al manicomio. Ma ora mi ricordo cosa volevo fare con il coltello: volevo fare a pezzi le mie pitture. Ed è quello che farò subito!

Tornò ad impugnare il coltello e si avvicinò con aria minacciosa alla tela sulla quale si ammucchiavano, in una confusione indescrivibile, le tredici zampe del cavallo che egli chiamava mucca. Alzò la mano per lasciar cadere il primo fendente, poi sembrò cambiar parere.

– La fatica di tanti mesi, – sospirò. – È doloroso distruggerla con le proprie mani.

– Ecco una bella frase, – disse Zoppino, – quando terrò un taccuino, ce la scriverò per ricordarmela. Ma prima di fare a pezzi il quadro, perché non prova a dar retta a Gelsomino?

– Ma sì! – esclamò Bananito. – Che cosa ci perdo? A tagliare il quadro sono sempre in tempo.

E col coltello, abilmente, grattò il colore fino a far scomparire cinque delle tredici zampe.

– Mi sembra che vada già meglio, – lo incoraggiò Gelsomino.

– Tredici meno cinque otto, – disse Zoppino. – Se il quadro rappresentasse due cavalli andrebbe bene. Scusi, volevo dire due mucche.

– Ne tolgo qualche altra, eh? – domandò Bananito.

E senza attendere risposta grattò un altro paio di zampe.

– Fuoco… fuoco… – commentò Zoppino, – quasi ci siamo.

– Che effetto fa?

– Ne lasci quattro sole, vediamo cosa succede.

Quando le zampe furono ridotte a quattro, successe che dalla tela uscì un nitrito di gioia e subito dopo il cavallo saltò sul pavimento e fece il giro della soffitta al piccolo trotto.

– O perbacco, o perbacco, comincio a sentirmi meglio. Là dentro ci si stava proprio stretti.

Passando davanti a un piccolo specchio appeso alla parete, si osservò pezzetto per pezzetto con aria critica, poi nitrì soddisfatto:

– Che bel cavallo! Sono proprio un bel cavallo! Signori, non so come ringraziarvi. Se capiterete dalle mie parti vi farò fare una bella galoppata.

– Quali parti? Ehi, ferma, ferma! – gridava Bananito.

Ma il cavallo aveva già infilato la porta delle scale: si sentirono i suoi quattro zoccoli saltare di pianerottolo in pianerottolo, e poco dopo, dalla finestra, i nostri amici poterono vedere il superbo animale attraversare il vicolo e dirigersi verso la campagna. Bananito, per l'emozione, era tutto in sudore.

– In definitiva, – disse quando potè riprendere fiato, – era proprio un cavallo. Se lo ha detto lui, gli debbo credere. E pensare che a scuola, con la sua figura, mi hanno insegnato la lettera «emme»: mmm… mucca!

– Avanti, avanti! – miagolava Zoppino al colmo dell'entusiasmo, – passiamo ad un altro quadro.

Bananito passò ad un cammello con troppe gobbe: tante che parevano le dune del deserto. Gratta gratta, finalmente ne rimasero solo due.

– Diventa bello… – mormorava lavorando febbrilmente. – Diventa proprio bello anche questo quadro. Credete che alla fine diventerà vero anche lui?

– Quando sarà bello abbastanza, sì, – disse Gelsomino.

Ma non successe nulla: il cammello restava sulla tela, impassibile, indifferente, come se niente lo riguardasse.

– Le code! – gridò ad un tratto Zoppino. – Ne ha tre, sufficienti per tutta una famiglia di cammelli.

Quando anche le code di troppo furono scomparse, il cammello scese solennemente dalla tela, respirò con soddisfazione e lanciò un'occhiata di ringraziamento a Zoppino:

– Meno male che ti sei accorto delle code. Correvo il rischio di restarmene per sempre in questa soffitta. Sapete se ci siano deserti, qua attorno?

– Ce n'è uno al centro della città, – disse Bananito, – è un deserto pubblico, ma a quest'ora è chiuso.

– Lui vuol dire un giardino pubblico, – spiegò Zoppino al cammello. – Deserti veri e propri è difficile trovarne meno lontano di due o tre mila chilometri. Ma cerca di non farti vedere dalle guardie, sennò finisci allo zoo.

Anche il cammello, prima di andarsene, si guardò allo specchio e si trovò bello. Anche lui, poco dopo, attraversava il vicolo al piccolo trotto: una guardia notturna che lo vide non credette ai propri occhi, e cominciò a darsi dei grandi pizzicotti per svegliarsi.

– Si vede che invecchio, – concluse poi, quando il cammello fu scomparso alla svolta. – Ora mi addormento anche in servizio e sogno di essere in Africa. Devo starci attento, altrimenti mi licenzieranno.

Bananito, ormai, non l'avrebbe fermato nemmeno una minaccia di morte o una lettera anonima. Saltava da un quadro all'altro, lavorando di coltello e gridando di gioia:

– Questa sì che è chirurgia: ho fatto più operazioni io in dieci minuti che i professori dell'ospedale in dieci giorni.

I quadri, a levarne le bugie di cui erano pieni, diventavano belli; e diventando belli, diventavano veri, e addirittura vivi. Cani, pecore, capre, saltavano giù dalle tele e se ne andavano per il mondo, a caccia di un posto per essere felici, o anche solo di topi, se erano gatti.

Bananito fece a pezzi un solo quadro: quello del ciambellano che voleva tre nasi. C'era pericolo, difatti, che ridotto a un solo naso anche il ciambellano saltasse giù dalla tela, a rimproverare il pittore per aver trasgredito ai suoi ordini. Gelsomino lo aiutò a farne coriandoli.

Zoppino, intanto, si era messo a girellare con l'aria di chi cerca qualcosa, e dalla sua espressione delusa si vedeva chiaramente che non trovava quel che cercava.

– Cavalli, cammelli, ciambellani, – borbottava fra sé e sé, – e neanche una crosta di formaggio. Perfino i topi si tengono lontani da questa soffitta: l'odore della miseria non piace a nessuno. La fame puzza peggio di un veleno.

Frugando in un oscuro cantuccio, trovò una piccola tela, un quadretto coperto di polvere e abitato, sul retro, da un millepiedi, che, disturbato, schizzò via con le sue mille zampe: mille davvero, che Bananito non avrebbe offeso nessuno sbagliandone il conto.

II quadretto rappresentava qualcosa che, con molta buona volontà, avrebbe potuto essere paragonato a una tavola imbandita. Su un piatto, per esempio, si indovinava un mostruoso animale che sarebbe stato un pollo arrosto se avesse avuto solo due cosce, e così invece pareva un parente del millepiedi.

«Ecco un quadro, – riflette Zoppino, – che mi piacerebbe veder diventare vero così com'è. Un pollo con un ventina di cosce: che comodità per una famiglia, per un oste, per un gatto affamato. Bisognerà toglierne la maggior parte, e pazienza: ne resterà abbastanza per uno spuntino in tre».

Portò il quadro a Bananito e lo pregò di usare opportunamente il suo coltello.

– Ma il pollo è cotto, – obiettò Bananito, – non potrà mica diventar vivo!

– A noi serve cotto, non vivo! – rispose Zoppino.

E a questa osservazione il pittore non trovò nulla da obiettare, tanto più che anche lui ricordò in quel momento di non aver mangiato dalla sera precedente, tutto preso dalla sua pittura.

Il pollo non diventò vivo, ma usci lo stesso dal quadro, fumante e profumato più che se fosse stato tolto dal forno allora allora.

– Come pittore farai certo carriera, – disse Zoppino, addentando un'ala (le due cosce le aveva lasciate a Gelsomino e a Bananito), – ma come cuoco sei addirittura un campione.

– Ci vorrebbe un po' di vino, – disse a un certo punto Gelsomino, – ma a quest'ora le osterie saranno chiuse, ed anche se fossero aperte non ci servirebbero a niente perché non abbiamo soldi.

A Zoppino venne un'idea. Disse a Bananito:

– Perché non disegni subito un quartuccio di vino, o magari un fiaschetto?

– Proverò, – rispose il pittore, che non stava nella pelle dall'entusiasmo.

Disegnò un fiasco di Chianti, e quando gli mise il colore lo fece tanto bello che se Gelsomino non fosse stato pronto ad afferrare il collo del fiasco, il vino, uscendo dalla tela con troppo slancio, si sarebbe versato sul pavimento.

I tre amici brindarono alla pittura, al bel canto e ai gatti. A quest'ultimo brindisi, però, Zoppino si fece triste. Dovettero pregarlo un bel pezzo per fargli dire quello che gli stava sul cuore.

– In fondo, – si decise a brontolare, – io sono un gatto sbagliato, come quelli che stavano sulle tele fino a mezz'ora fa. Ho tre sole zampe e non posso nemmeno dire di aver perso la quarta in guerra o andando sotto il tram, perché sarebbe una bugia. Chissà se Bananito…

Non ebbe bisogno di aggiungere altro. Il pittore aveva già dato mano ai pennelli e in pochi istanti dipinse una zampa di gatto che sarebbe piaciuta anche al Gatto con gli stivali. E il meglio è che la zampa si attaccò subito, al posto giusto, al corpo di Zoppino, il quale, dapprima con passo incerto, poi sempre più sicuramente, provò a camminarci passeggiando per la soffitta:

– Ah, che bellezza, – miagolava, – mi sento un altro! Ma un altro così diverso che vorrei addirittura cambiar nome.

– Che stupido! – esclamò invece Bananito, battendosi una mano sulla fronte. – Ti ho fatto una zampa coi colori a olio, mentre le altre sono state fatte col gesso.

– Niente di male, – disse Zoppino, – me la tengo com'è; e guai a chi me la tocca. E mi tengo anche il mio vecchio nome, che a pensarci bene mi sta a pennello: la zampa destra davanti, a scrivere sui muri mi si è accorciata di almeno mezzo centimetro.

Quella notte, Bananito volle a tutti i costi cedere la sua branda a Gelsomino: lui dormì per terra, su un mucchio di vecchie tele. Zoppino si accomodò in una tasca del cappotto di Bananito, che stava appeso alla porta, e fece un sogno più bello dell'altro.

 

Date: 2015-11-13; view: 346; Íàðóøåíèå àâòîðñêèõ ïðàâ; Ïîìîùü â íàïèñàíèè ðàáîòû --> ÑÞÄÀ...



mydocx.ru - 2015-2024 year. (0.014 sec.) Âñå ìàòåðèàëû ïðåäñòàâëåííûå íà ñàéòå èñêëþ÷èòåëüíî ñ öåëüþ îçíàêîìëåíèÿ ÷èòàòåëÿìè è íå ïðåñëåäóþò êîììåð÷åñêèõ öåëåé èëè íàðóøåíèå àâòîðñêèõ ïðàâ - Ïîæàëîâàòüñÿ íà ïóáëèêàöèþ