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In fin del capitolo Zoppino ridiventa un disegnino





 

Quando a casa di Benvenuto‑Mai seduto, dove Gelsomino si curava il ginocchio, si seppe che Bananito era diventato ministro, Zoppino decise di andargli a presentare una petizione per far liberare zia Pannocchia e Romoletta. Purtroppo egli giunse alla reggia quando già la fortuna di Bananito era tramontata, più rapida di una luna frettolosa.

– Se vuoi vedere Bananito, – gli dissero le sentinelle, sghignazzando, – devi andare al manicomio. Ma chissà se ti lasceranno passare: a meno che tu sia matto…

Zoppino fu a lungo in dubbio se farsi passare per matto o tentare di entrare nel manicomio per altra via.

– Zampe mie, mi affido a voi, – decise finalmente, – adesso che siete in quattro, farete anche meno fatica ad arrampicarvi sui muri.

Il manicomio era un edificio tetro, quadrato come un castello e circondato da un fossato colmo d'acqua. Zoppino dovette rassegnarsi a prendere un bagno: si tuffò, traversò il fossato, si arrampicò per i muri e infilò la prima finestrella aperta, che era quella delle cucine. Cuochi e camerieri erano andati tutti a dormire, tranne uno sguattero che stava lavando il pavimento, e che gli gridò:

– Pussa via, bestiaccia! Dovresti saperlo che qui avanzi non ce ne sono!

Il poveraccio, difatti, era sempre tanto affamato che divorava tutti i rifiuti di cucina, fino all'ultima spina di pesce. E nella fretta di cacciare il gatto, perché non gli portasse via qualcosa della sua parte, gli aprì una porta che dava su un lungo corridoio.

A destra e a sinistra, a perdita d'occhio, si allineavano le celle dei pazzi. O meglio: dei prigionieri, che pazzi non erano, ma avevano avuto il torto di dire qualche volta la verità e la sfortuna di essere stati uditi dalle guardie dì Giacomone.

Alcune celle erano divise dal corridoio soltanto per mezzo di una robusta inferriata. Altre apparivano chiuse da robuste porte di ferro, nelle quali si apriva soltanto uno spioncino per far passare i pasti.

In una di queste celle Zoppino rivide i gatti di zia Pannocchia e, con sua grande sorpresa, il buon Fido: dormivano, poggiando l'uno la testa sulia coda dell'altro, e chissà che bei sogni facevano. Zoppino non ebbe il coraggio di svegliarli, perché tanto, in quel momento, non avrebbe potuto far nulla per loro.

Nella stessa cella, come voi sapete, era rinchiuso anche Calimero La Cambiale, che non dormiva affatto, e come vide Zoppino cominciò a pregarlo:

– Fratello, portami un topo, tu che sei libero! Un topolino solo! È tanto che non ne ho uno fra gli artigli.

«Questo è matto davvero», – pensò Zoppino che non lo conosceva e richiuse lo spioncino.

In fondo al corridoio c'era una camerata in cui dormivano non meno di cento persone, tra cui zia Pannocchia e Romoletta. Se ci fosse stata una luce accesa, Zoppino avrebbe potuto forse vederle e riconoscerle. Se non fosse stata addormentata, zia Pannocchia avrebbe potuto forse afferrare Zoppino per la coda, alla sua vecchia maniera. Ma la luce non era accesa e tutti i prigionieri dormivano, compresa Romoletta.

Zoppino attraversò la camerata in punta di zampe, uscì su una scala che portava al piano superiore, e trovò finalmente, dopo molte ricerche, la cella in cui era rinchiuso Bananito.

Il pittore dormiva tranquillo, con le mani dietro la nuca, e in sogno continuava a vedere i magnifici quadri che avrebbe dipinto. In uno di questi quadri, ad un tratto, si produsse uno strappo: al centro di un magnifico mazzo di fiori apparve a Bananito la testa di un gatto che miagolava proprio con la voce di Zoppino.

Bananito si destò e un'occhiata alla porta gli fece capire che stava sempre al manicomio. Ma nella porta lo spioncino si era aperto, e nel piccolo rettangolo era apparsa la testa di Zoppino e la sua voce continuava a miagolare, anche fuori del sogno.

– Bananito! Bananito! Perbacco, che sonno duro.

– Guarda, guarda: tagliatemi la testa se quelli non sono i baffi di Zoppino.

– Sveglia, ti dico. Sono Zoppino, sì, compresa la zampa che tu mi hai regalato, e che funziona a meraviglia.

In così dire, il gatto si assottigliò per attraversare la grata, saltò nella cella e corse a leccare la mano di Bananito.

– Sono qui per aiutarti.

– Ti ringrazio, ma come?

– Ancora non lo so: potrei rubare la chiave ai guardiani.

– Si sveglierebbero.

– Potrei rosicchiare la porta e farti uscire.

– Sì, se tu avessi dieci anni di tempo forse riusciresti anche a fare un buco nella porta di ferro. Lo so io quel che ci vorrebbe.

– E che cosa?

– Una lima. Dammi una lima, e al resto penso io.

– Allora corro a cercarne una.

– Ci sarebbe un sistema più semplice, – disse Bananito. – Potrei disegnarne una, ma quei briganti non mi hanno lasciato nemmeno un mozzicone di matita.

– Se è solo per questo, – esclamò Zoppino, – ci sono le mie zampe. Non ti scordare che tre sono fatte col gesso, e una quarta coi colori a olio.

– Già, ma si consumeranno.

Zoppino non volle sentire ragioni:

– Pazienza, potrai sempre rifarmene delle altre.

– E per scendere dalla finestra?

– Disegnerai un paracadute.

– E per attraversare il fossato?

– Disegnerai un canotto.

Quando Bananito ebbe terminato di disegnare tutto quello che occorreva per la fuga, la zampa di Zoppino si era ridotta a un mozzicone inservibile, come se gliel'avessero amputata.

– Vedi, – rise Zoppino, – che ho fatto bene a non cambiare nome. Zoppo ero, e zoppo rimango.

– Ti rifaccio subito la zampa, – propose Bananito.

– Non c'è tempo. Andiamo, prima che le guardie si sveglino.

Bananito cominciò a lavorare di lima: per fortuna aveva disegnato una lima che mordeva il ferro più che se fosse stato polpa di banana. In pochi minuti una vasta breccia si aprì nella porta e i nostri amici poterono uscire nel corridoio.

– Passiamo a prendere zia Pannocchia e Romoletta, – propose Zoppino, – e inoltre non dimentichiamoci dei gatti.

Ma il rumore della lima aveva destato le guardie, che avevano cominciato un giro d'ispezione per scoprirne la provenienza. Bananito e Zoppino ne udivano i passi cadenzati che si aggiravano di corridoio in corridoio.

– Cerchiamo di raggiungere la cucina, – suggerì Zoppino, – se non possiamo scappare tutti, scappiamo almeno noi due. Liberi, saremo più utili che prigionieri.

Come li vide comparire in cucina, lo sguattero ricominciò a inveire contro Zoppino:

– Ti ho appena cacciato, ingordo. Vuoi proprio rubarmi il pane? Avanti, quella è la finestra: esci di là, e se ti anneghi, tanto meglio!

Era così infuriato che non fece caso a Bananito: vedeva solo il gatto, temeva soltanto la sua concorrenza. Bananito si allacciò il paracadute, preparò il canotto aperto e prese in braccio Zoppino.

– Via!

– Sì, sì, via, via, – brontolò lo sguattero, – e non rimettete più i piedi qua dentro.

Solo quando Bananito ebbe spiccato il salto lo sguattero ebbe il sospetto che qualcosa non andasse per il giusto verso.

– Ma quell'altro, chi era mai? – si domandò, grattandosi la testa. E, a scanso di guai, decise di stare zitto. Lui non aveva visto nulla, non aveva sentito nessuno. Scelse dal mucchio della spazzatura un torso di cavolo e lo addentò, mugolando di soddisfazione.

La fuga di Bananito era stata scoperta pochi attimi prima. Da tutte le finestre del manicomio i guardiani si affacciavano a gridare:

– Aiuto! Allarmi! È fuggito un pazzo pericoloso!

Bananito e Zoppino, accucciati nel canotto, remavano con le mani per attraversare il fossato. Ma non sarebbero andati molto lontano se a riceverli non fosse stato pronto, col suo carretto, Benvenuto‑Mai seduto, che aveva indovinato le intenzioni di Zoppino.

– Presto, nascondetevi qua sotto! – bisbigliò il vecchio cenciaiolo. Li fece montare sul carro e li coperse con un mucchio di stracci. Alle guardie che sopraggiungevano, poi, indicò una direzione qualunque:

– Di là, guardate: sono scappati da quella parte!

– E tu chi sei?

– Sono un povero cenciaiolo. Mi sono fermato qui per riposare.

E per convincerli che era stanco davvero, si sedette su una delle

stanghe del carretto e accese la pipa.

Povero Benvenuto: sapeva anche troppo che a restare in quella posizione gli sarebbero spuntati altri capelli bianchi, e in pochi minuti chissà quanti anni di vita avrebbe perso. Ma era fatto così.

«Gli anni che perdo io, – pensava, – allungheranno la vita a qualche altro. Con la vita e con la morte sono in pari».

E cacciò una boccata di fumo in faccia ai guardiani.

Purtroppo, in quello stesso istante Zoppino cominciò a sentire un prurito alle narici: i cenci sotto cui stava sepolto erano piuttosto polverosi, e solo un rinoceronte avrebbe potuto dire che erano profumati. Zoppino tentò di stringersi il naso con le zampe davanti, per soffocare lo sternuto, ma si ricordò troppo tardi che ormai, davanti, aveva una zampa sola. Lo sternuto scoppiò, così violento che sollevò una nuvola di polvere.

Zoppino, per non far scoprire Bananito, preferì saltar giù dal carretto e darsela a gambe.

– Che è stato? – domandavano le guardie.

– Un cane, – rispose Benvenuto, – un cane si era nascosto fra gli stracci. Eccolo là che scappa.

– Se scappa, – dissero le guardie, – non ha la coscienza tranquilla, Inseguiamolo!

Zoppino udì i loro passi ferrati, li sentì dare l'allarme e se ne rallegrò:

– Se mi seguiranno, lasceranno in pace Benvenuto e Bananito.

Traversò la città, e le guardie dietro, con la lingua penzoloni. Eccola

piazza della reggia, ecco la colonna su cui Zoppino ha già passato una notte tranquilla.

– Ancora un salto, – raccomandò Zoppino alle proprie zampe, – e saremo in salvo!

Le zampe gli diedero retta con troppo slancio: invece di trovarsi aggrappato alla colonna pronto ad arrampicarvisi in cima, Zoppino si trovò addirittura impastato sulla colonna. Era ridiventato un disegno, lo scarabocchio di un gatto con tre zampe. Sul momento, non gli dispiacque, perché le guardie erano rimaste, come scrissero poi esse stesse nel loro rapporto, «con un palmo di naso».

– Dov'è scomparso? – si domandavano.

– Io l'ho visto saltare sulla colonna.

– Non si vede più nulla.

– Si vede soltanto uno scarabocchio, guardate: qualche monello ha disegnato un gatto col gesso rubato a scuola.

– BÈ, andiamocene: gli scarabocchi non sono affar nostro.

Benvenuto, intanto, aveva spinto il carretto fino a casa, fermandosi ogni tanto a riprendere fiato. Dovette sedersi ancora due o tre volte sulle stanghe, perché non ce la faceva più dalla fatica. Insomma, era uscito di casa che aveva sì e no81 ottant'anni, e quando rivide il suo portone ne aveva certo più di novanta: il mento gli toccava il petto, gli occhi scomparivano in un groviglio di rughe, la voce era fioca come se giungesse di sotto un mucchio di polvere.

– Bananito, sveglia, siamo arrivati!

Bananito, infatti, si era addormentato fra gli stracci, al calduccio.

 

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