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Gelsomino canta in scena, con Domisol, maestro in pena





 

I cittadini, svegliandosi, trovarono affisso a tutte le cantonate il seguente manifesto:

Questa mattina

(ma non alle ore 48 precise) il pessimo tenore

Gelsomino cane tra i cani

reduce dai fiaschi e dai fischi ottenuti

nei principali teatri

d'Europa e d'America non canterà affatto

al Teatro Comunale.

La cittadinanza è pregata di non venire.

I biglietti d'ingresso

non costano nulla.

Il manifesto, naturalmente, andava letto alla rovescia e tutti i cittadini compresero che significava esattamente il contrario di quel che c'era scritto. Al posto di «fiaschi» bisognava intendere «trionfi», e quel «non canterà affatto» significava invece che Gelsomino avrebbe cantato proprio alle ore 48, cioè alle ventuno precise.

L'accenno all'America, per la verità, Gelsomino non ce lo avrebbe voluto:

– In America io non ci sono mai stato, – protestava.

– Appunto, – aveva ribattuto il maestro Domisol, – è una bugia, dunque ci sta benissimo. Se tu fossi stato in America ci sarebbe toccato scrivere che eri stato in Asia. La legge è fatta così. Ma tu non pensare alle leggi, pensa a cantare.

La mattinata, come i nostri lettori sanno già, fu piuttosto movimentata (si era scoperta la famosa frase di Zoppino sulla facciata della reggia). Nel pomeriggio tornò la calma e molto prima delle ventuno il teatro, come scrissero poi i giornali, «era vuoto come H deserto», il che voleva dire che era zeppo da scoppiare.

Il pubblico era accorso in massa, nella speranza di sentire un vero cantante. Il maestro Domisol, infatti, aveva provveduto personalmente, ni fine di riempire il teatro, a far correre voci strepitose sul conto di Gelsomino.

– Portatevi del cotone da mettere nelle orecchie, – dicevano in giro per la città gli agenti di Domisol, – quel tenore è uno strazio e vi farà soffrire le pene dell'inferno.

– Immaginate dieci cani col cimurro che abbaino tutti insieme; ingiungeteci il coro di un centinaio di gatti a cui qualcuno abbia Incendiato la coda; mescolate il tutto con una sirena dei pompieri ed agitate: ecco qualcosa che somiglia alla voce di Gelsomino.

– Insomma, è un mostro?

– Un vero mostro. Dovrebbe cantare negli stagni come i ranocchi, non nei teatri. Anzi, dovrebbe cantare sott'acqua, con qualcuno che gli impedisse di rialzare la testa per respirare e che lo facesse affogare come un gatto arrabbiato.

Questi discorsi andavano interpretati alla rovescia, come tutti i discorsi nel paese dei bugiardi: e ciò vi farà capire perché il teatro, come stavamo dicendo, molto prima delle nove era più pieno di un uovo.

Alle nove in punto fece il suo ingresso nel palco reale Sua Maestà Giacomone Primo, con la parrucca arancione fieramente piantata sulla testa. I presenti si alzarono, gli fecero l'inchino e tornarono a sedere, sforzandosi di non guardare più dalla parte della parrucca.

Nessuno si permise la più lontana allusione all'incidente del mattino: tutti, infatti, sapevano che il teatro era disseminato di spioni pronti a trascrivere sui loro taccuini i discorsi della gente.

Domisol, che aspettava con ansia l'arrivo del sovrano, guardando in platea da un buco del sipario, fece cenno a Gelsomino di tenersi pronto e raggiunse l'orchestra. A un segnale della sua bacchetta scoppiarono le prime note dell'inno nazionale, che cominciava così: "Viva, viva, Giacomone e i capelli color arancione…"

Nessuno si permise di ridere, s'intende. Qualcuno giura che Giacomone, in quel momento, sia lievemente arrossito; ma è difficile credergli, perché Giacomone, per parere più giovane, portava quella sera sul volto uno spesso strato di cipria.

Quando Gelsomino comparve sul palco, gli agenti di Domisol diedero il segnale dei fischi e delle grida:

– Abbasso Gelsomino!

– Ritirati, cane!

– Torna nello stagno, ranocchio!

Gelsomino accolse queste ed altre simili grida con molta pazienza, si schiarì la gola e attese che tornasse il silenzio. Poi attaccò la prima canzone del programma, con la voce più dolce che riuscì a emettere dalla bocca, stringendo le labbra al punto che da lontano pareva perfino che cantasse a bocca chiusa.

Era una canzoncina del suo paese, dalle parole abbastanza comuni e un tantino bislacche (leggete in fondo al volume una scelta delle sue canzoni), ma Gelsomino la cantava con tanto sentimento che ben presto in tutto il teatro ci fu un grande sventolio di fazzoletti: il pubblico non faceva in tempo ad asciugarsi le lacrime. La canzoncina finiva con un acuto, e Gelsomino non forzò la voce, anzi, cercò di assottigliarla ancor di più.

Tuttavia non riuscì a impedire che si udisse una dozzina di «tac pum»: le lampadine del loggione, che erano di vetro leggerissimo, erano scoppiate. Gli scoppi furono del resto soffocati da una formidabile bordata di fischi. Tutto il teatro, in piedi, urlava a perdifiato:

– Vattene! Buffone! Non farti sentire più! Vai a fare le serenate alle balene!

Insomma, come avrebbero potuto scrivere i giornali, se avessero potuto dire la verità: «l'entusiasmo era incontenibile!».

Gelsomino si inchinò e intonò la seconda canzone. Questa volta si lasciò andare un tantino, bisogna riconoscerlo. La canzone gli piaceva, cantare era la sola sua passione, il pubblico lo ascoltava in estasi: Gelsomino dimenticò la sua solita prudenza e fece un acuto che mandò in visibilio, a chilometri di distanza, la folla che non aveva potuto trovare posto in teatro.

Egli sì aspettava un applauso, o per meglio dire una nuova bordata di fischi e di insulti. Invece scoppiò una risata che lo lasciò di stucco. Il pubblico pareva essersi dimenticato di lui, gli voltava le spalle e guardava ridendo in un'unica direzione.

Anche Gelsomino guardò da quella parte, e quel che vide gli fece gelare il sangue nelle vene e la voce in gola. L'acuto non aveva spezzato i robusti lampadari sospesi sulla platea, ma aveva fatto di peggio: la famosa parrucca arancione era volata via dalla testa di rè Giacomone!

Il sovrano, tamburellando nervosamente sulla balaustra del suo palco, cercava di capire il perché di tanta allegria. Poveretto, non si era accorto di nulla, e nessuno osava rivelargli la verità, ricordandosi troppo bene la fine che aveva fatto, quella mattina stessa, la lingua di un cortigiano troppo zelante.

Domisol, che volgeva le spalle alla sala, e non poteva veder nulla, fece cenno a Gelsomino di attaccare la terza canzone.

«Se Giacomone fa una brutta figura, – pensò Gelsomino, – non c'è bisogno che la faccia anch'io. Questa volta voglio cantar bene davvero».

E cantò così bene, trascinato dall'ispirazione, cantò con voce così potente che fin dalle prime note il teatro cominciò ad andare in pezzi. Prima si ruppero i lampadari e crollarono travolgendo una parte degli spettatori che non avevano fatto in tempo a mettersi in salvo. Poi crollò una fila di palchi, proprio quella al cui centro si trovava il palco reale: ma Giacomone, per fortuna, aveva già abbandonato il teatro. Si era guardato allo specchio, per controllare se non fosse il caso di ridarsi la cipria alle guance, ed aveva scoperto con terrore che la parrucca gli era volata via. Quella sera, si dice, fece tagliare la lingua a tutti i cortigiani che stavano con lui a teatro, perché non lo avevano avvertito del disastroso incidente.

Mentre Gelsomino cantava, il pubblico si affollava verso le uscite: quando crollarono le ultime file di palchi e il loggione, in sala erano rimasti solo Gelsomino e Domisol. Il primo, ad occhi chiusi, continuava a cantare: si era ormai dimenticato di essere a teatro, si era dimenticato di essere Gelsomino, pensava soltanto al piacere di cantare. Domisol, ad occhi bene aperti, purtroppo, si metteva le mani nei capelli:

– Il mio teatro! Sono rovinato! Sono rovinato!

Sulla piazza dei teatro la folla gridava stavolta:

– Bravo! Bravo!

E lo diceva in un certo modo che le guardie di Giacomone, guardandosi negli occhi, mormoravano:

– Vuoi vedere che gli stanno dicendo bravo perché canta bene, e non perché canta male?

Gelsomino terminò con un acuto che rimosse le macerie del teatro e sollevò un immenso polverone. Soltanto allora egli si accorse del disastro che aveva provocato. Vide Domisol che, agitando minacciosamente la sua bacchetta direttoriale, si sforzava di raggiungerlo scavalcando montagne di rovine.

«La mia carriera di cantante è finita, – pensò disperato. – Mettiamo almeno in salvo la pelle».

Attraverso una breccia nelle pareti del teatro uscì sulla piazza, nascondendosi il volto, si mescolò alla folla, raggiunse una strada solitaria, e cominciò a correre, a correre da rompersi le gambe per lo sforzo.

Ma Domisol, che non l'aveva perso di vista, lo inseguiva gridando:

– Fermati, disgraziato! Pagami il mio teatro!

Gelsomino scantonò in un vicolo, si infilò nel primo portoncino, salì.ilfannosamente le scale fino alla soffitta, spinse la porta: ed eccolo nello «studio» di Bananito, nello stesso istante in cui Zoppino vi faceva Il suo ingresso dalla finestra.

 

Date: 2015-11-13; view: 268; Нарушение авторских прав; Помощь в написании работы --> СЮДА...



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