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Allor, come di mia colpa compunto, dissi: «Or direte dunque a quel caduto che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto, fate i saper che ’l fei perché pensava già ne l’error che m’avete soluto».
E già ’l maestro mio mi richiamava; per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio che mi dicesse chi con lu’ istava.
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: qua dentro è ’l secondo Federico e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio».
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico poeta volsi i passi, ripensando a quel parlar che mi parea nemico.
Elli si mosse; e poi, così andando, mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?». E io li sodisfeci al suo dimando.
«La mente tua conservi quel ch’udito hai contra te», mi comandò quel saggio; «e ora attendi qui», e drizzò ’l dito:
«quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell’ occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il vïaggio».
Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo per un sentier ch’a una valle fiede,
che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
Inferno · Canto XI
In su l’estremità d’un’alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio, venimmo sopra più crudele stipa;
e quivi, per l’orribile soperchio del puzzo che ’l profondo abisso gitta, ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
d’un grand’ avello, ov’ io vidi una scritta che dicea: ‘Anastasio papa guardo, lo qual trasse Fotin de la via dritta’.
«Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s’ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».
Così ’l maestro; e io «Alcun compenso», dissi lui, «trova che ’l tempo non passi perduto». Ed elli: «Vedi ch’a ciò penso».
«Figliuol mio, dentro da cotesti sassi», cominciò poi a dir, «son tre cerchietti di grado in grado, come que’ che lassi.
Tutti son pien di spirti maladetti; ma perché poi ti basti pur la vista, intendi come e perché son costretti.
D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista, ingiuria è ’l fine, ed ogne fin cotale o con forza o con frode altrui contrista.
Ma perché frode è de l’uom proprio male, più spiace a Dio; e però stan di sotto li frodolenti, e più dolor li assale.
Di vïolenti il primo cerchio è tutto; ma perché si fa forza a tre persone, in tre gironi è distinto e costrutto.
A Dio, a sé, al prossimo si pòne far forza, dico in loro e in lor cose, come udirai con aperta ragione.
Morte per forza e ferute dogliose nel prossimo si danno, e nel suo avere ruine, incendi e tollette dannose;
onde omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon, tutti tormenta lo giron primo per diverse schiere.
Puote omo avere in sé man vïolenta e ne’ suoi beni; e però nel secondo giron convien che sanza pro si penta
qualunque priva sé del vostro mondo, biscazza e fonde la sua facultade, e piange là dov’ esser de’ giocondo.
Puossi far forza ne la deïtade, col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade;
e però lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa e chi, spregiando Dio col cor, favella.
La frode, ond’ ogne coscïenza è morsa, può l’omo usare in colui che ’n lui fida e in quel che fidanza non imborsa.
Questo modo di retro par ch’incida pur lo vinco d’amor che fa natura; onde nel cerchio secondo s’annida
ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura.
Per l’altro modo quell’ amor s’oblia che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto, di che la fede spezïal si cria;
onde nel cerchio minore, ov’ è ’l punto de l’universo in su che Dite siede, qualunque trade in etterno è consunto».
E io: «Maestro, assai chiara procede la tua ragione, e assai ben distingue questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede.
Ma dimmi: quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che s’incontran con sì aspre lingue,
perché non dentro da la città roggia sono ei puniti, se Dio li ha in ira? e se non li ha, perché sono a tal foggia?».
Ed elli a me «Perché tanto delira», disse, «lo ’ngegno tuo da quel che sòle? o ver la mente dove altrove mira?
Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta le tre disposizion che ’l ciel non vole,
incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza men Dio offende e men biasimo accatta?
Se tu riguardi ben questa sentenza, e rechiti a la mente chi son quelli che sù di fuor sostegnon penitenza,
tu vedrai ben perché da questi felli sien dipartiti, e perché men crucciata la divina vendetta li martelli».
«O sol che sani ogne vista turbata, tu mi contenti sì quando tu solvi, che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.
Ancora in dietro un poco ti rivolvi», diss’ io, «là dove di’ ch’usura offende la divina bontade, e ’l groppo solvi».
«Filosofia», mi disse, «a chi la ’ntende, nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende
dal divino ’ntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte,
che l’arte vostra quella, quanto pote, segue, come ’l maestro fa ’l discente; sì che vostr’ arte a Dio quasi è nepote.
Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesì dal principio, convene prender sua vita e avanzar la gente;
e perché l’usuriere altra via tene, per sé natura e per la sua seguace dispregia, poi ch’in altro pon la spene.
Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta, e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace,
e ’l balzo via là oltra si dismonta».
Inferno · Canto XII
Era lo loco ov’ a scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco, tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento l’Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse, al piano è sì la roccia discoscesa, ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel burrato era la scesa; e ’n su la punta de la rotta lacca l’infamïa di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, sé stesso morse, sì come quei cui l’ira dentro fiacca.
Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse tu credi che qui sia ’l duca d’Atene, che sù nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene».
Qual è quel toro che si slaccia in quella c’ha ricevuto già ’l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e là saltella,
vid’ io lo Minotauro far cotale; e quello accorto gridò: «Corri al varco; mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale».
Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco.
Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi forse a questa ruina, ch’è guardata da quell’ ira bestial ch’i’ ora spensi.
Or vo’ che sappi che l’altra fïata ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno,
da tutte parti l’alta valle feda tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo sentisse amor, per lo qual è chi creda
più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia, qui e altrove, tal fece riverso.
Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per vïolenza in altrui noccia».
Oh cieca cupidigia e ira folle, che sì ci sproni ne la vita corta, e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!
Io vidi un’ampia fossa in arco torta, come quella che tutto ’l piano abbraccia, secondo ch’avea detto la mia scorta;
e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia.
Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette;
e l’un gridò da lungi: «A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l’arco tiro».
Lo mio maestro disse: «La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre sì tosta».
Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira, e fé di sé la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, ch’al petto si mira, è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quell’ altro è Folo, che fu sì pien d’ira.
Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue più che sua colpa sortille».
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirón prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca, disse a’ compagni: «Siete voi accorti che quel di retro move ciò ch’el tocca?
Così non soglion far li piè d’i morti». E ’l mio buon duca, che già li er’ al petto, dove le due nature son consorti,
rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto mostrar li mi convien la valle buia; necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.
Tal si partì da cantare alleluia che mi commise quest’ officio novo: non è ladron, né io anima fuia.
Ma per quella virtù per cu’ io movo li passi miei per sì selvaggia strada, danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri là dove si guada, e che porti costui in su la groppa, ché non è spirto che per l’aere vada».
Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida, e fa cansar s’altra schiera v’intoppa».
Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio; e ’l gran centauro disse: «E’ son tiranni che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.
Quivi si piangon li spietati danni; quivi è Alessandro, e Dïonisio fero che fé Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte c’ha ’l pel così nero, è Azzolino; e quell’ altro ch’è biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro sù nel mondo». Allor mi volsi al poeta, e quei disse: «Questi ti sia or primo, e io secondo».
Poco più oltre il centauro s’affisse sovr’ una gente che ’nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci un’ombra da l’un canto sola, dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola».
Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto ’l casso; e di costoro assai riconobb’ io.
Così a più a più si facea basso quel sangue, sì che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo.
«Sì come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema», disse ’l centauro, «voglio che tu credi
che da quest’ altra a più a più giù prema lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge ove la tirannia convien che gema.
La divina giustizia di qua punge quell’ Attila che fu flagello in terra, e Pirro e Sesto; e in etterno munge
le lagrime, che col bollor diserra, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra».
Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.
Inferno · Canto XIII
Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.
Non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che ’n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani.
E ’l buon maestro «Prima che più entre, sappi che se’ nel secondo girone», mi cominciò a dire, «e sarai mentre
che tu verrai ne l’orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone».
Io sentia d’ogne parte trarre guai e non vedea persona che ’l facesse; per ch’io tutto smarrito m’arrestai.
Cred’ ïo ch’ei credette ch’io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi, da gente che per noi si nascondesse.
Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi qualche fraschetta d’una d’este piante, li pensier c’hai si faran tutti monchi».
Allor porsi la mano un poco avante e colsi un ramicel da un gran pruno; e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb’ esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi».
Come d’un stizzo verde ch’arso sia da l’un de’ capi, che da l’altro geme e cigola per vento che va via,
sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond’ io lasciai la cima cadere, e stetti come l’uom che teme.
«S’elli avesse potuto creder prima», rispuose ’l savio mio, «anima lesa, ciò c’ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece d’alcun’ ammenda tua fama rinfreschi nel mondo sù, dove tornar li lece».
E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi, ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi perch’ ïo un poco a ragionar m’inveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi; fede portai al glorïoso offizio, tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.
La meretrice che mai da l’ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti; e li ’nfiammati infiammar sì Augusto, che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.
L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d’esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d’onor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che ’nvidia le diede».
Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace», disse ’l poeta a me, «non perder l’ora; ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».
Ond’ ïo a lui: «Domandal tu ancora di quel che credi ch’a me satisfaccia; ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».
Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia liberamente ciò che ’l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come l’anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, s’alcuna mai di tai membra si spiega».
Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: «Brievemente sarà risposto a voi.
Quando si parte l’anima feroce dal corpo ond’ ella stessa s’è disvelta, Minòs la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non l’è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra: l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come l’altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch’alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.
Qui le strascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».
Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch’altro ne volesse dire, quando noi fummo d’un romor sorpresi,
similemente a colui che venire sente ’l porco e la caccia a la sua posta, ch’ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo sì forte, che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!». E l’altro, cui pareva tardar troppo, gridava: «Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!». E poi che forse li fallia la lena, di sé e d’un cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch’uscisser di catena.
In quel che s’appiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea per le rotture sanguinenti in vano.
«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, che t’è giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?».
Quando ’l maestro fu sovr’ esso fermo, disse: «Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?».
Ed elli a noi: «O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,
raccoglietele al piè del tristo cesto. I’ fui de la città che nel Batista mutò ’l primo padrone; ond’ ei per questo
sempre con l’arte sua la farà trista; e se non fosse che ’n sul passo d’Arno rimane ancor di lui alcuna vista,
que’ cittadin che poi la rifondarno sovra ’l cener che d’Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto a me de le mie case».
Inferno · Canto XIV
Poi che la carità del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte e rende’le a colui, ch’era già fioco.
Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa selva l’è ghirlanda intorno, come ’l fosso tristo ad essa; quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d’altra foggia fatta che colei che fu da’ piè di Caton già soppressa.
O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge ciò che fu manifesto a li occhi mei!
D’anime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continüamente.
Quella che giva ’ntorno era più molta, e quella men che giacëa al tormento, ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo fiamme cadere infino a terra salde,
per ch’ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre ch’era solo:
tale scendeva l’etternale ardore; onde la rena s’accendea, com’ esca sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da sé l’arsura fresca.
I’ cominciai: «Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ’ demon duri ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci,
chi è quel grande che non par che curi lo ’ncendio e giace dispettoso e torto, sì che la pioggia non par che ’l marturi?».
E quel medesmo, che si fu accorto ch’io domandava il mio duca di lui, gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta onde l’ultimo dì percosso fui;
零. s’elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,
sì com’ el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza: non ne potrebbe aver vendetta allegra».
Allora il duca mio parlò di forza tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito: «O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
la tua superbia, se’ tu più punito; nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito».
Poi si rivolse a me con miglior labbia, dicendo: «Quei fu l’un d’i sette regi ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia
Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi; ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi.
Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia; ma sempre al bosco tien li piedi stretti».
Tacendo divenimmo là ’ve spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello.
Lo fondo suo e ambo le pendici fatt’ era ’n pietra, e ’ margini dallato; per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.
«Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta lo cui sogliare a nessuno è negato,
cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile com’ è ’l presente rio, che sovra sé tutte fiammelle ammorta».
Queste parole fuor del duca mio; per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto di cui largito m’avëa il disio.
«In mezzo mar siede un paese guasto», diss’ elli allora, «che s’appella Creta, sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.
Una montagna v’è che già fu lieta d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida; or è diserta come cosa vieta.
Rëa la scelse già per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida.
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver’ Dammiata e Roma guarda come süo speglio.
La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e ’l petto, poi è di rame infino a la forcata;
da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che ’l destro piede è terra cotta; e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto.
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta d’una fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, fóran quella grotta.
Lor corso in questa valle si diroccia; fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van giù per questa stretta doccia,
infin, là ove più non si dismonta, fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, però qui non si conta».
E io a lui: «Se ’l presente rigagno si diriva così dal nostro mondo, perché ci appar pur a questo vivagno?».
Ed elli a me: «Tu sai che ’l loco è tondo; e tutto che tu sie venuto molto, pur a sinistra, giù calando al fondo,
non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto; per che, se cosa n’apparisce nova, non de’ addur maraviglia al tuo volto».
E io ancor: «Maestro, ove si trova Flegetonta e Letè? ché de l’un taci, e l’altro di’ che si fa d’esta piova».
«In tutte tue question certo mi piaci», rispuose, «ma ’l bollor de l’acqua rossa dovea ben solver l’una che tu faci.
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, là dove vanno l’anime a lavarsi quando la colpa pentuta è rimossa».
Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro ogne vapor si spegne».
Inferno · Canto XV
Ora cen porta l’un de’ duri margini; e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia, sì che dal foco salva l’acqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa, fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, qual che si fosse, lo maestro félli.
Già eravam da la selva rimossi tanto, ch’i’ non avrei visto dov’ era, perch’ io in dietro rivolto mi fossi,
quando incontrammo d’anime una schiera che venian lungo l’argine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.
Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».
E io, quando ’l suo braccio a me distese, ficcaï li occhi per lo cotto aspetto, sì che ’l viso abbrusciato non difese
la conoscenza süa al mio ’ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».
E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia».
I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m’asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco».
«O figliuol», disse, «qual di questa greggia s’arresta punto, giace poi cent’ anni sanz’ arrostarsi quando ’l foco il feggia.
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni».
Io non osava scender de la strada per andar par di lui; ma ’l capo chino tenea com’ uom che reverente vada.
El cominciò: «Qual fortuna o destino anzi l’ultimo dì qua giù ti mena? e chi è questi che mostra ’l cammino?».
«Là sù di sopra, in la vita serena», rispuos’ io lui, «mi smarri’ in una valle, avanti che l’età mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m’apparve, tornand’ ïo in quella, e reducemi a ca per questo calle».
Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorïoso porto, se ben m’accorsi ne la vita bella;
e s’io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t’avrei a l’opera conforto.
Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico; ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent’ è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba, che l’una parte e l’altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l’erba.
Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s’alcuna surge ancora in lor letame,
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