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Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’ io intesi quell’ anime offense, china’ il viso, e tanto il tenni basso, fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangëa; sì che di pietade io venni men così com’ io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Inferno · Canto VI
Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la pietà d’i due cognati, che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati mi veggio intorno, come ch’io mi mova e ch’io mi volga, e come che io guati.
Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualità mai non l’è nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve per l’aere tenebroso si riversa; pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e ’l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani; de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo.
E ’l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gittò dentro a le bramose canne.
Qual è quel cane ch’abbaiando agogna, e si racqueta poi che ’l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pugna,
cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che ’ntrona l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.
Noi passavam su per l’ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanità che par persona.
Elle giacean per terra tutte quante, fuor d’una ch’a seder si levò, ratto ch’ella ci vide passarsi davante.
«O tu che se’ per questo ’nferno tratto», mi disse, «riconoscimi, se sai: tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».
E io a lui: «L’angoscia che tu hai forse ti tira fuor de la mia mente, sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente loco se’ messo, e hai sì fatta pena, che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».
Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena d’invidia sì che già trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
E io anima trista non son sola, ché tutte queste a simil pena stanno per simil colpa». E più non fé parola.
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita; ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita; s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione per che l’ha tanta discordia assalita».
E quelli a me: «Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccerà l’altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l’altra sormonti con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti, tenendo l’altra sotto gravi pesi, come che di ciò pianga o che n’aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi; superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi».
Qui puose fine al lagrimabil suono. E io a lui: «Ancor vo’ che mi ’nsegni e che di più parlar mi facci dono.
Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
dimmi ove sono e fa ch’io li conosca; ché gran disio mi stringe di savere se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca».
E quelli: «Ei son tra l’anime più nere; diverse colpe giù li grava al fondo: se tanto scendi, là i potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch’a la mente altrui mi rechi: più non ti dico e più non ti rispondo».
Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi.
E ’l duca disse a me: «Più non si desta di qua dal suon de l’angelica tromba, quando verrà la nimica podesta:
ciascun rivederà la trista tomba, ripiglierà sua carne e sua figura, udirà quel ch’in etterno rimbomba».
Sì trapassammo per sozza mistura de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti, toccando un poco la vita futura;
per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti crescerann’ ei dopo la gran sentenza, o fier minori, o saran sì cocenti?».
Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza, che vuol, quanto la cosa è più perfetta, più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta in vera perfezion già mai non vada, di là più che di qua essere aspetta».
Noi aggirammo a tondo quella strada, parlando più assai ch’i’ non ridico; venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
Inferno · Canto VII
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», cominciò Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: «Non ti noccia la tua paura; ché, poder ch’elli abbia, non ci torrà lo scender questa roccia».
Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia, e disse: «Taci, maladetto lupo! consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion l’andare al cupo: vuolsi ne l’alto, là dove Michele fé la vendetta del superbo strupo».
Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele.
Così scendemmo ne la quarta lacca, pigliando più de la dolente ripa che ’l mal de l’universo tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant’ io viddi? e perché nostra colpa sì ne scipa?
Come fa l’onda là sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s’intoppa, così convien che qui la gente riddi.
Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa, e d’una parte e d’altra, con grand’ urli, voltando pesi per forza di poppa.
Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».
Così tornavan per lo cerchio tetro da ogne mano a l’opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand’ era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra. E io, ch’avea lo cor quasi compunto,
dissi: «Maestro mio, or mi dimostra che gente è questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti a la sinistra nostra».
Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci sì de la mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia, quando vegnono a’ due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor cherci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali, in cui usa avarizia il suo soperchio».
E io: «Maestro, tra questi cotali dovre’ io ben riconoscere alcuni che furo immondi di cotesti mali».
Ed elli a me: «Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i fé sozzi, ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno a li due cozzi: questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro ha tolto loro, e posti a questa zuffa: qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa d’i ben che son commessi a la fortuna, per che l’umana gente si rabbuffa;
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna e che già fu, di quest’ anime stanche non poterebbe farne posare una».
«Maestro mio», diss’ io, «or mi dì anche: questa fortuna di che tu mi tocche, che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
E quelli a me: «Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che v’offende! Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce. Similemente a li splendor mondani ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d’uno in altro sangue, oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue, seguendo lo giudicio di costei, che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue: necessità la fa esser veloce; sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode: con l’altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior pieta; già ogne stella cade che saliva quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta».
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva sovr’ una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva.
L’acqua era buia assai più che persa; e noi, in compagnia de l’onde bige, intrammo giù per una via diversa.
In la palude va c’ha nome Stige questo tristo ruscel, quand’ è disceso al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co’ denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi l’anime di color cui vinse l’ira; e anche vo’ che tu per certo credi
che sotto l’acqua è gente che sospira, e fanno pullular quest’ acqua al summo, come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.
Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra”. Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra».
Così girammo de la lorda pozza grand’ arco tra la ripa secca e ’l mézzo, con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.
Inferno · Canto VIII
Io dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre, li occhi nostri n’andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre, e un’altra da lungi render cenno, tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?».
Ed elli a me: «Su per le sucide onde già scorgere puoi quello che s’aspetta, se ’l fummo del pantan nol ti nasconde».
Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per l’aere snella, com’ io vidi una nave piccioletta
venir per l’acqua verso noi in quella, sotto ’l governo d’un sol galeoto, che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!».
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», disse lo mio segnore, «a questa volta: più non ci avrai che sol passando il loto».
Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand’ io fui dentro parve carca.
Tosto che ’l duca e io nel legno fui, segando se ne va l’antica prora de l’acqua più che non suol con altrui.
Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».
E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango; ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?». Rispuose: «Vedi che son un che piango».
E io a lui: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».
Allor distese al legno ambo le mani; per che ’l maestro accorto lo sospinse, dicendo: «Via costà con li altri cani!».
Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi ’l volto e disse: «Alma sdegnosa, benedetta colei che ’n te s’incinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi: così s’è l’ombra sua qui furïosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi che qui staranno come porci in brago, di sé lasciando orribili dispregi!».
E io: «Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago».
Ed elli a me: «Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: di tal disïo convien che tu goda».
Dopo ciò poco vid’ io quello strazio far di costui a le fangose genti, che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; e ’l fiorentino spirito bizzarro in sé medesmo si volvea co’ denti.
Quivi il lasciammo, che più non ne narro; ma ne l’orecchie mi percosse un duolo, per ch’io avante l’occhio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, s’appressa la città c’ha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo».
E io: «Maestro, già le sue meschite là entro certe ne la valle cerno, vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno ch’entro l’affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno».
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse che vallan quella terra sconsolata: le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte «Usciteci», gridò: «qui è l’intrata».
Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?». E ’l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, che li ha’ iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca mio, che più di sette volte m’hai sicurtà renduta e tratto d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar», diss’ io, «così disfatto; e se ’l passar più oltre ci è negato, ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
E quel segnor che lì m’avea menato, mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen va, e quivi m’abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch’a lor porse; ma ei non stette là con essi guari, che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri: «Chi m’ha negate le dolenti case!».
E a me disse: «Tu, perch’ io m’adiri, non sbigottir, ch’io vincerò la prova, qual ch’a la difension dentro s’aggiri.
Questa lor tracotanza non è nova; ché già l’usaro a men segreta porta, la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr’ essa vedestù la scritta morta: e già di qua da lei discende l’erta, passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta».
Inferno · Canto IX
Quel color che viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse.
Attento si fermò com’ uom ch’ascolta; ché l’occhio nol potea menare a lunga per l’aere nero e per la nebbia folta.
«Pur a noi converrà vincer la punga», cominciò el, «se non... Tal ne s’offerse. Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».
I’ vidi ben sì com’ ei ricoperse lo cominciar con l’altro che poi venne, che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne, perch’ io traeva la parola tronca forse a peggior sentenzia che non tenne.
«In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado, che sol per pena ha la speranza cionca?».
Questa question fec’ io; e quei «Di rado incontra», mi rispuose, «che di noi faccia il cammino alcun per qual io vado.
Ver è ch’altra fïata qua giù fui, congiurato da quella Eritón cruda che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda, ch’ella mi fece intrar dentr’ a quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell’ è ’l più basso loco e ’l più oscuro, e ’l più lontan dal ciel che tutto gira: ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.
Questa palude che ’l gran puzzo spira cigne dintorno la città dolente, u’ non potemo intrare omai sanz’ ira».
E altro disse, ma non l’ho a mente; però che l’occhio m’avea tutto tratto ver’ l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto tre furïe infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l’etterno pianto, «Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
Quest’ è Megera dal sinistro canto; quella che piange dal destro è Aletto; Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme e gridavan sì alto, ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto», dicevan tutte riguardando in giuso; «mal non vengiammo in Tesëo l’assalto».
«Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso; ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso».
Così disse ’l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi ch’avete li ’ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ’l velame de li versi strani.
E già venìa su per le torbide onde un fracasso d’un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento impetüoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz’ alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori.
Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo è più acerbo».
Come le rane innanzi a la nimica biscia per l’acqua si dileguan tutte, fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,
vid’ io più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un ch’al passo passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell’ aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell’ angoscia parea lasso.
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fé segno ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta e con una verghetta l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
«O cacciati del ciel, gente dispetta», cominciò elli in su l’orribil soglia, «ond’ esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che più volte v’ha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».
Poi si rivolse per la strada lorda, e non fé motto a noi, ma fé sembiante d’omo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li è davante; e noi movemmo i piedi inver’ la terra, sicuri appresso le parole sante.
Dentro li ’ntrammo sanz’ alcuna guerra; e io, ch’avea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra,
com’ io fui dentro, l’occhio intorno invio: e veggio ad ogne man grande campagna, piena di duolo e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, sì com’ a Pola, presso del Carnaro ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt’ il loco varo, così facevan quivi d’ogne parte, salvo che ’l modo v’era più amaro;
ché tra li avelli fiamme erano sparte, per le quali eran sì del tutto accesi, che ferro più non chiede verun’ arte.
Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor n’uscivan sì duri lamenti, che ben parean di miseri e d’offesi.
E io: «Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell’ arche, si fan sentir coi sospiri dolenti?».
E quelli a me: «Qui son li eresïarche con lor seguaci, d’ogne setta, e molto più che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi». E poi ch’a la man destra si fu vòlto,
passammo tra i martìri e li alti spaldi.
Inferno · Canto X
Ora sen va per un secreto calle, tra ’l muro de la terra e li martìri, lo mio maestro, e io dopo le spalle.
«O virtù somma, che per li empi giri mi volvi», cominciai, «com’ a te piace, parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.
La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? già son levati tutt’ i coperchi, e nessun guardia face».
E quelli a me: «Tutti saran serrati quando di Iosafàt qui torneranno coi corpi che là sù hanno lasciati.
Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che l’anima col corpo morta fanno.
Però a la dimanda che mi faci quinc’ entro satisfatto sarà tosto, e al disio ancor che tu mi taci».
E io: «Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m’hai non pur mo a ciò disposto».
«O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patrïa natio, a la qual forse fui troppo molesto».
Subitamente questo suono uscìo d’una de l’arche; però m’accostai, temendo, un poco più al duca mio.
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s’è dritto: da la cintola in sù tutto ’l vedrai».
Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s’ergea col petto e con la fronte com’ avesse l’inferno a gran dispitto.
E l’animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: «Le parole tue sien conte».
Com’ io al piè de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».
Io ch’era d’ubidir disideroso, non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi; ond’ ei levò le ciglia un poco in suso;
poi disse: «Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, sì che per due fïate li dispersi».
«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte», rispuos’ io lui, «l’una e l’altra fïata; ma i vostri non appreser ben quell’ arte».
Allor surse a la vista scoperchiata un’ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s’era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s’altri era meco; e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: «Se per questo cieco carcere vai per altezza d’ingegno, mio figlio ov’ è? e perché non è teco?».
E io a lui: «Da me stesso non vegno: colui ch’attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
Le sue parole e ’l modo de la pena m’avean di costui già letto il nome; però fu la risposta così piena.
Di sùbito drizzato gridò: «Come? dicesti “elli ebbe”? non viv’ elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
Quando s’accorse d’alcuna dimora ch’io facëa dinanzi a la risposta, supin ricadde e più non parve fora.
Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta restato m’era, non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa;
e sé continüando al primo detto, «S’elli han quell’ arte», disse, «male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell’ arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è sì empio incontr’ a’ miei in ciascuna sua legge?».
Ond’ io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio».
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso, «A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu’ io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto».
«Deh, se riposi mai vostra semenza», prega’ io lui, «solvetemi quel nodo che qui ha ’nviluppata mia sentenza.
El par che voi veggiate, se ben odo, dinanzi quel che ’l tempo seco adduce, e nel presente tenete altro modo».
«Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, le cose», disse, «che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano.
Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta».
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