Ãëàâíàÿ Ñëó÷àéíàÿ ñòðàíèöà


Ïîëåçíîå:

Êàê ñäåëàòü ðàçãîâîð ïîëåçíûì è ïðèÿòíûì Êàê ñäåëàòü îáúåìíóþ çâåçäó ñâîèìè ðóêàìè Êàê ñäåëàòü òî, ÷òî äåëàòü íå õî÷åòñÿ? Êàê ñäåëàòü ïîãðåìóøêó Êàê ñäåëàòü òàê ÷òîáû æåíùèíû ñàìè çíàêîìèëèñü ñ âàìè Êàê ñäåëàòü èäåþ êîììåð÷åñêîé Êàê ñäåëàòü õîðîøóþ ðàñòÿæêó íîã? Êàê ñäåëàòü íàø ðàçóì çäîðîâûì? Êàê ñäåëàòü, ÷òîáû ëþäè îáìàíûâàëè ìåíüøå Âîïðîñ 4. Êàê ñäåëàòü òàê, ÷òîáû âàñ óâàæàëè è öåíèëè? Êàê ñäåëàòü ëó÷øå ñåáå è äðóãèì ëþäÿì Êàê ñäåëàòü ñâèäàíèå èíòåðåñíûì?


Êàòåãîðèè:

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Bananito va in prigione e con la matita fa colazione





 

Bananito, come ricorderete con un piccolo sforzo, era uscito di buon mattino in cerca di fortuna. Non aveva nessun progetto preciso, ma solo una gran voglia di fare qualcosa per mostrare la propria bravura.

La città si svegliava allora allora. Gli spazzini lavavano le strade con le pompe, scherzando con gli operai che andavano al lavoro in bicicletta e rischiavano ad ogni minuto una doccia.

Era un'ora allegra e serena e Bananito, fermo sul marciapiedi, si sentiva fiorire in testa bellissimi pensieri. Ne sentiva quasi il profumo, come se intorno a lui fossero spuntate improvvisamente, tra le pietre della città, milioni di violette.

– Ecco una bella cosa da fare! – decise improvvisamente.

E li dove si trovava, presso il cancello di una fabbrica, si accucciò sul marciapiedi, levò dei gessetti da una scatola e cominciò a lavorare.

Un gruppetto di operai gli fu subito intorno.

– Scommetto, – disse uno, – che disegnerà il solito veliero, o qualche santo con l'aureola. Ma dov'è il cane col berretto in bocca per raccogliere le elemosine?

– Io so una storia, – disse un altro. – Una volta un pittore disegnò per terra una riga rossa, e tutti gli stavano attorno e si spremevano il cervello51 per indovinare che cosa volesse dire.

– E cosa voleva dire?

– Lo domandarono anche al pittore, e lui rispose: voglio vedere se qualcuno è capace di passare sotto la riga invece che sopra. Poi si mise il cappello e se ne andò. Doveva essere un po' matto.

– Questo però non è matto, – disse qualcuno, – guardate.

Bananito, senza alzare la testa dal suo lavoro, dipingeva così in fretta che gli occhi faticavano a tener dietro alla sua mano. E sun marciapiedi, proprio come lui aveva sognato, nasceva un bellissimo giardino di violette. Era solo un disegno, ma così bello che ad un certo punto cominciò davvero a profumare.

– Pare quasi, – mormorò uno degli operai, – di sentire un profumo di violette.

– Chiamale zucchine, se non vuoi che ti mettano dentro, – lo avvertì un suo compagno. – Però è vero: si sente il profumo.

Tutti, intorno a Bananito, fecero un gran silenzio. Si sentiva il gessetto grattare delicatamente la pietra, e ad ogni segno viola il profumo di violette aumentava.

Gli operai erano commossi. Passavano da una mano all'altra il pacchettino della colazione, fingevano di sentire se le gomme delle biciclette erano abbastanza gonfie, ma non perdevano un gesto di Bananito, e allargavano le narici per lasciarsi penetrare da quel profumo che rallegrava il cuore.

La sirena fischiò, ma nessuno si mosse per entrare in fabbrica. Si udì mormorare: «Bravo! Bravo!» Bananito alzò gli occhi e incontrò gli sguardi dei suoi spettatori: lesse in loro tanta simpatia che si sentì intimidito. Raccolse in fretta i suoi colori e si allontanò.

Uno degli operai lo rincorse:

– Ma che fai? Perché scappi? Ancora un minuto e ti avremmo dato tutti i soldi che avevamo in tasca. Nessuno ha mai visto un disegno così bello!

– Grazie, – mormorò Bananito, – grazie.

E attraversò la strada, per essere solo.

Il cuore gli batteva tanto forte che si vedeva la giacca, in quel punto, sussultare come se ci fosse stato sotto un gattino. Era proprio felice!

Camminò a lungo per la città, senza decidersi a fare un altro disegno. Cento idee gli venivano e cento ne scartava.

Finalmente la vista di un cane gli diede l'ispirazione giusta. Si accoccolò sul marciapiedi, nello stesso punto in cui la nuova idea gli era venuta in mente, e cominciò a disegnare.

Ci sono sempre dei passanti che non hanno niente da fare se non passare da una strada all'altra: passanti di professione, o forse

disoccupati. Di nuovo, dunque, intorno a Bananito, ci fu una piccola folla a commentare.

– Guardate che originalità: sta disegnando un gatto, come se non ce ne fossero anche troppi in giro per la città, se ti viene voglia di guardarne uno.

– È un gatto speciale, – disse allegramente Bananito.

– Avete sentito? Fa un gatto speciale, forse un gatto con gli occhiali?

Le chiacchiere cessarono d'incanto quando il cane di Bananito,

ricevuto l'ultimo segno di colore sulla coda, balzò sulle quattro zampe abbaiando festosamente. La folla levò grida di meraviglia, e subito accorse un poliziotto.

– Che c'è? Che succede? Ah, vedo, vedo. Anzi, sento: un gatto che abbaia. Non ne avevamo abbastanza dei cani che miagolano! Di chi è?

La folla si disperse rapidamente, per non dover rispondere alla domanda. Solo un poveretto, che stava proprio vicino alla guardia, non potè svignarsela perché era stato afferrato per un braccio.

– È suo, – sussurrò indicando Bananito, con gli occhi bassi.

La guardia lo lasciò andare e acchiappò Bananito.

– Vieni con me, tu!

Bananito non si fece pregare, si mise i colori in tasca e seguì la guardia, senza perdere la sua allegria. Il cane, però, drizzata la coda come una vela, aveva già deciso di andarsene per i fatti suoi.

In attesa che il comandante delle guardie lo interrogasse, Bananito fu rinchiuso in camera di sicurezza. Le mani, però, gli prudevano dalla voglia di lavorare. Disegnò un uccellino e gli diede il volo, ma l'uccellino non volle allontanarsi da lui: gli si andò a posare sulla spalla e gli beccava affettuosamente un orecchio.

– Ho capito, – disse Bananito. – Hai fame!

E subito gli disegnò alcuni granelli di miglio. Questo gli fece venire in mente che non aveva ancora fatto colazione.

– Due uova al burro mi basteranno. E una bella pesca gialla. Disegnò quel che gli occorreva e ben presto un profumo di uova

fritte si diffuse per la stanza, uscì dalla porta e andò a solleticare le narici della sentinella.

– Hm… che delizia! – disse il giovanotto, allargando le narici per non perdere un filo di quel profumo.

Ma poi gli venne un dubbio, aprì lo spioncino della cella e guardò dentro. La vista del prigioniero che mangiava di buon appetito lo lasciò di sasso, e in quella posizione, con un'espressione stupita sul volto, lo trovò il capo delle guardie.

– Ma bene! – gridò quest'ultimo, al colmo dell'indignazione. – Ma benone! Adesso ai prigionieri portiamo anche i pasti dal ristorante.

– Io non… io non… – balbettò la guardia.

– Tu non conosci il regolamento! Pane ed acqua, acqua e pane, e niente più!

– Io non so come ha fatto… – riuscì finalmente a dire la guardia, – Forse aveva le uova in tasca.

– Già, e il fornello? Vedo che in mia assenza fioriscono le novità: celle con uso di cucina…

A questo punto però il comandante dovette persuadersi a sua volta che nella cella non c'era alcun fornello.

Bananito, del resto, per non far passare un brutto quarto d'ora alla guardia, si decise a confessare come aveva fatto a procurarsi la colazione.

– Tu mi credi un imbecille, – disse il comandante, dopo averlo ascoltato con incredulità. – Che faresti se ti ordinassi di disegnarmi una sogliola al vino bianco?

Bananito, senza rispondere, prese un pezzo di carta e disegnò il piatto che gli era stato ordinato.

– Col prezzemolo o senza? – domandò, mentre lavorava.

– Col prezzemolo, – ordinò ridacchiando il comandante. – Mi hai proprio preso per un citrullo. Quando avrai finito, ti farò mangiare quel foglio di carta fino all'ultimo centimetro quadrato.

Ma quando Bananito ebbe finito, un appetitoso odore di sogliola al vino bianco si irradiò dal foglio, e qualche istante dopo, sotto gli occhi del comandante spalancati come portoni, il piatto fumò sul tavolo, e pareva dicesse: «Mangiami, mangiami!».

– Buon appetito, – disse Bananito, – il signore è servito!

– Non ho più fame, – borbottò il comandante, rimettendosi dalla sorpresa. – La sogliola la mangerà la sentinella. E tu vieni con me.

 

Bananito ministro del rè; cade in disgrazia; udrete perché

 

Il capo delle guardie non era uno stupido: al contrario, era un gran furbone.

«Quest'uomo, – egli rifletteva accompagnando Bananito in castello reale, – vale tant'oro quanto pesa, e forse qualche quintale di più. E siccome io ho una cassaforte abbastanza grande, non c'è ragione che qualche chilo d'oro non ci finisca dentro: ci starà al fresco e al riparo dai topi. Il rè mi darà sicuramente un bel premio!»

Le sue speranze però andarono deluse: rè Giacomone, avvertito dell'accaduto, comandò che il pittore fosse portato alla sua presenza e congedò freddamente il capo delle guardie, dicendogli:

– Avrete una medaglia al merito per la vostra scoperta.

«Cosa me ne faccio, – borbottava fra sé il capo delle guardie, – di una medaglia al merito? Ne ho già ventiquattro, tutte di cartone: se avessi dei tavolini che zoppicano, potrei farne dei tasselli per raddrizzarli».

Lasciamolo borbottare, lasciamolo andare. Assistiamo invece all'incontro fra Bananito e rè Giacomone.

Il pittore, per niente impressionato di trovarsi alla presenza del potente sovrano, rispose tranquillamente alle sue domande, senza cessare di ammirare la bellissima parrucca arancione che gli splendeva in capo come un cesto di arance al mercato.

– Cos'avete da guardare?

– Maestà, ammiro i vostri capelli.

– Sapreste dipingerne di uguali?

La segreta speranza di Giacomone era che Bananito sapesse dipingergli direttamente sulla pelata dei bel capelli veri, di quelli che non ci fosse bisogno di posarli sul comodino all'ora di andare a letto.

– Così belli certamente no, – rispose Bananito, pensando di fargli cosa gradita. In fondo, aveva compassione di un pover'uomo che si crucciava tanto per la sua calvizie. Tanta gente si taglia i capelli corti corti, per non avere il fastidio di pettinarli: e gli uomini non si giudicano da! colore dei capelli. Anche se avesse avuto dei bellissimi capelli neri, ricciuti, naturali, Giacomone sarebbe rimasto quel ladrone e pirata che tutti sapevano.

Giacomone, sospirando, mise da parte per il momento l'idea di farsi dipingere una testa nuova. Decise invece di sfruttare il talento di Bananito per passare alla storia come un grande rè.

– Ti nominerò, – disse al pittore, – ministro del giardino zoologico. Il giardino c'è, ma non ci sono le bestie: devi disegnarle tu. E mi raccomando: che non ne manchi nessuna.

«Meglio ministro che in prigione!», riflette Bananito.

E prima di sera, sotto gli occhi di migliaia di spettatori, aveva disegnato e fatto vivere centinaia di animali di ogni genere e specie: leoni, tigri, coccodrilli, elefanti, pappagalli, tartarughe, pellicani. E cani, anche cani: mastini, levrieri, pechinesi, bassotti, che abbaiavano tutti insieme con grande scandalo dei cortigiani.

– Dove andremo a finire, – essi mormoravano, – se Sua Maestà permette ai cani di abbaiare? Qui si va contro la legge. Con questi cattivi esempi davanti agli occhi il popolo si metterà in testa idee pericolose.

Ma Giacomone aveva dato ordine di non disturbare Bananito e di lasciargli fare tutto quello che voleva, così i cortigiani dovettero inghiottire le loro proteste e digerirle.

Via via che Bananito le faceva, le bestie prendevano posto nelle gabbie; nelle vasche se erano orsi bianchi, foche o pinguini; nei viali del parco se erano asinelli sardi destinati a scarrozzare i bambini.

Quella sera Bananito non potè tornare a dormire nella sua soffitta: il rè gli diede una stanza nella reggia, e gli mise dieci sentinelle davanti alla porta, per paura che scappasse.

Il giorno dopo, non essendoci più niente da fare allo zoo, Bananito fu nominato ministro dei generi alimentari (o, come loro dicevano, Primo cartolaio dello Stato). Gli prepararono un tavolino con tutto lo occorrente per dipingere davanti al portone della reggia, e la gente poteva chiedergli tutto quel che voleva da mangiare.

Dapprincipio qualcuno restò deluso. Se chiedeva a Bananito dell'inchiostro, intendendo del pane (secondo la lingua dei bugiardi) Bananito gli disegnava una bella bottiglia d'inchiostro e subito diceva:

– Avanti un altro.

– Ma che cosa me ne faccio? – borbottava lo sfortunato. – Non posso mica berlo o mangiarlo.

Ben presto la gente imparò che se si voleva qualcosa da Bananito bisognava chiamarla col suo nome vero, quello proibito.

Lo scandalo dei cortigiani era al colmo:

– Andiamo sempre peggio, – sibilavano, lividi in volto. – Di questo passo finirà proprio male. Nessuno dirà più bugie. Ma che cosa è successo a rè Giacomone?!

Rè Giacomone aspettava sempre che gli spuntasse il coraggio di chiedere a Bananito dei capelli veri, da portare in testa senza paura del vento, e intanto lasciava fare al pittore tutto quel che voleva, e non avrebbe tollerato proteste. I cortigiani masticavano amaro e mandavano giù, ma ormai avevano lo stomaco pieno di rospi.

Anche i generali masticavano rospi:

– Ecco qua, dicevano, – abbiamo finalmente sotto mano un tipo come questo pittore e che cosa gli facciamo fare? Frittate, polli alla diavola, sacchettini di patate fritte, tavolette di cioccolata. Cannoni ci vorrebbero, cannoni: potremmo allestire un esercito invincibile e ingrandire il regno!

Un generale più bellicoso degli altri andò addirittura a parlarne con Giacomone. Il vecchio pirata, a quell'idea, si sentì ribollire il sangue nelle vene.

– Cannoni! – esclamò. – Cannoni, certo! E navi, aeroplani, dirigibili. Per le corna di Belzebù, chiamatemi subito Bananito!

Erano anni che i suoi fedeli non lo sentivano invocare le corna di Belzebù, la sua bestemmia preferita dei tempi in cui, ritto sul ponte di comando della sua nave, arringava la ciurma prima di lanciarla all'arrembaggio.

La distribuzione di cibarie fu subito sospesa e Bananito portato alla presenza del rè e del suo stato maggiore. Grandi carte geografiche furono appese alle pareti, e i servitori portarono una scatola di bandierine per segnare i punti delle future vittorie.

Bananito li stette ad ascoltare con molta calma, senza interrompere i loro focosi discorsi. Ma quando gli diedero carta e matita perché cominciasse senz'altro a fabbricare cannoni alla sua maniera, scrisse in mezzo al foglio un bel NO, in stampatello, e lo portò attorno per la sala per essere ben sicuro che tutti lo leggessero.

– Signori miei, – disse poi, – se volete un buon caffè per schiarirvi le idee, sono pronto a prepararvelo in meno di un minuto; se volete un cavallo ciascuno, per andare a caccia di volpi, io vi disegnerò dei puro sangue; ma quei cannoni, bisogna che li dimentichiate. Da me non li'avrete mai.

Scoppiò il finimondo. Tutti urlavano insieme e picchiavano i pugni sul tavolo. Giacomone, invece, per non farsi male, fece avvicinare un servitore e gli picchiò un gran pugno nella schiena.

– La testa, la testa! – si sentiva gridare. – Gli sia tagliata la testa!

– Facciamo così, – disse finalmente Giacomone, – invece di tagliargli la testa, diamogli il tempo di cambiarla. Mi sembra chiaro che quest'uomo, forse perché è un genio, è un po' matto. Mettiamolo per qualche giorno al manicomio.

I cortigiani borbottarono che la decisione era troppo clemente; ma sapevano che Giacomone non voleva rinunciare ai capelli, e si chetarono.

– Intanto, – continuò Giacomone, – non gli dev'essere permesso di disegnare né di dipingere.

Così fu che anche Bananito finì chiuso nel manicomio, in una cella isolata; senza carta né matita, né colori né pennelli. Non c'era il più piccolo pezzo di mattone o di gesso: le pareti erano imbottite, e, a meno di disegnare col sangue, Bananito doveva proprio rassegnarsi a non creare per il momento, nuovi capolavori.

Sì sdraiò sul pancaccio, con le mani dietro la nuca, a guardare il soffitto, che era bianchissimo: ma lui ci vedeva passare, una dopo l'altra, visioni sempre più belle, i quadri a cui avrebbe dato vita una volta uscito di lì. Che sarebbe uscito, non ne dubitò nemmeno per un momento. Ed aveva ragione, perché già qualcuno lavorava alla sua salvezza. Il suo nome vi verrà subito sulla punta della lingua: Zoppino.

 

Date: 2015-11-13; view: 305; Íàðóøåíèå àâòîðñêèõ ïðàâ; Ïîìîùü â íàïèñàíèè ðàáîòû --> ÑÞÄÀ...



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