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Inferno · Canto XXV
Al fine de le sue parole il ladro le mani alzò con amendue le fiche, gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch’ una li s’avvolse allora al collo, come dicesse ‘Non vo’ che più diche’;
e un’altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo sé stessa sì dinanzi, che non potea con esse dare un crollo.
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d’incenerarti sì che più non duri, poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi?
Per tutt’ i cerchi de lo ’nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.
El si fuggì che non parlò più verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: «Ov’ è, ov’ è l’acerbo?».
Maremma non cred’ io che tante n’abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia.
Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l’ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s’intoppa.
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, che, sotto ’l sasso di monte Aventino, di sangue fece spesse volte laco.
Non va co’ suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece del grande armento ch’elli ebbe a vicino;
onde cessar le sue opere biece sotto la mazza d’Ercule, che forse gliene diè cento, e non sentì le diece».
Mentre che sì parlava, ed el trascorse, e tre spiriti venner sotto noi, de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,
se non quando gridar: «Chi siete voi?»; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l’un nomar un altro convenette,
dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento, mi puosi ’l dito su dal mento al naso.
Se tu se’ or, lettore, a creder lento ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.
Com’ io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei piè si lancia dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia e con li anterïor le braccia prese; poi li addentò e l’una e l’altra guancia;
li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra ’mbedue e dietro per le ren sù la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue ad alber sì, come l’orribil fiera per l’altrui membra avviticchiò le sue.
Poi s’appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, né l’un né l’altro già parea quel ch’era:
come procede innanzi da l’ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non è nero ancora e ’l bianco more.
Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno gridava: «Omè, Agnel, come ti muti! Vedi che già non se’ né due né uno».
Già eran li due capi un divenuti, quando n’apparver due figure miste in una faccia, ov’ eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l’imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo.
Come ’l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa,
sì pareva, venendo verso l’epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe;
e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l’un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse; anzi, co’ piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l’assalisse.
Elli ’l serpente e quei lui riguardava; l’un per la piaga e l’altro per la bocca fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.
Taccia Lucano ormai là dov’ e’ tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch’or si scocca.
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio, ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo ’nvidio;
ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch’amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme, che ’l serpente la coda in forca fesse, e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.
Le gambe con le cosce seco stesse s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle, e i due piè de la fiera, ch’eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di rietro, insieme attorti, diventaron lo membro che l’uom cela, e ’l misero del suo n’avea due porti.
Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela di color novo, e genera ’l pel suso per l’una parte e da l’altra il dipela,
l’un si levò e l’altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie, e di troppa matera ch’in là venne uscir li orecchi de le gote scempie;
ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne.
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia;
e la lingua, ch’avëa unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.
L’anima ch’era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l’altro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra, com’ ho fatt’ io, carpon per questo calle».
Così vid’ io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra.
E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l’animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato;
l’altr’ era quel che tu, Gaville, piagni.
Inferno · Canto XXVI
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo, di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo. Così foss’ ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com’ più m’attempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee che n’avea fatto iborni a scender pria, rimontò ’l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ’l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi vide ’l carro d’Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire, ch’el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra ’l furto, e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra ’l ponte a veder surto, sì che s’io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz’ esser urto.
E ’l duca che mi vide tanto atteso, disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso».
«Maestro mio», rispuos’ io, «per udirti son io più certo; ma già m’era avviso che così fosse, e già voleva dirti:
chi è ’n quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger de la pira dov’ Eteòcle col fratel fu miso?».
Rispuose a me: «Là dentro si martira Ulisse e Dïomede, e così insieme a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme l’agguato del caval che fé la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta, Deïdamìa ancor si duol d’Achille, e del Palladio pena vi si porta».
«S’ei posson dentro da quelle faville parlar», diss’ io, «maestro, assai ten priego e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver’ lei mi piego!».
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l’accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete due dentro ad un foco, s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi».
Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’ Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati”, dissi “che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’ io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
Inferno · Canto XXVII
Già era dritta in sù la fiamma e queta per non dir più, e già da noi sen gia con la licenza del dolce poeta,
quand’ un’altra, che dietro a lei venìa, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n’uscia.
Come ’l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto, che l’avea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de l’afflitto, sì che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto;
così, per non aver via né forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertïan le parole grame.
Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,
perch’ io sia giunto forse alquanto tardo, non t’incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se’ di quella dolce terra latina ond’ io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch’io fui d’i monti là intra Orbino e ’l giogo di che Tever si diserra».
Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentò di costa, dicendo: «Parla tu; questi è latino».
E io, ch’avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: «O anima che se’ là giù nascosta,
Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni; ma ’n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata è molt’ anni: l’aguglia da Polenta la si cova, sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
La terra che fé già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova.
E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, là dove soglion fan d’i denti succhio.
Le città di Lamone e di Santerno conduce il lïoncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno.
E quella cu’ il Savio bagna il fianco, così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte, tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi se’, ti priego che ne conte; non esser duro più ch’altri sia stato, se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte».
Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l’aguta punta mosse di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
«S’i’ credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza più scosse;
ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero, sanza tema d’infamia ti rispondo.
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero, credendomi, sì cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venìa intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; e come e quare, voglio che m’intenda.
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe che la madre mi diè, l’opere mie non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, ch’al fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe d’i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin né con Giudei,
ché ciascun suo nimico era cristiano, e nessun era stato a vincer Acri né mercatante in terra di Soldano,
né sommo officio né ordini sacri guardò in sé, né in me quel capestro che solea fare i suoi cinti più macri.
Ma come Costantin chiese Silvestro d’entro Siratti a guerir de la lebbre, così mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre; domandommi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre.
E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti; finor t’assolvo, e tu m’insegna fare sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’ io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che ’l mio antecessor non ebbe care”.
Allor mi pinser li argomenti gravi là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio, e dissi: “Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov’ io mo cader deggio, lunga promessa con l’attender corto ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.
Francesco venne poi, com’ io fu’ morto, per me; ma un d’i neri cherubini li disse: “Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini perché diede ’l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a’ crini;
ch’assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente”.
Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: “Forse tu non pensavi ch’io löico fossi!”.
A Minòs mi portò; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: “Questi è d’i rei del foco furo”; per ch’io là dove vedi son perduto, e sì vestito, andando, mi rancuro».
Quand’ elli ebbe ’l suo dir così compiuto, la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo ’l corno aguto.
Noi passamm’ oltre, e io e ’l duca mio, su per lo scoglio infino in su l’altr’ arco che cuopre ’l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.
Inferno · Canto XXVIII
Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c’hanno a tanto comprender poco seno.
S’el s’aunasse ancor tutta la gente che già, in su la fortunata terra di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra che de l’anella fé sì alte spoglie, come Livïo scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo; e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie
a Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo, dove sanz’ arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d’aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo.
Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’ io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e ’l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m’attacco, guardommi e con le man s’aperse il petto, dicendo: «Or vedi com’ io mi dilacco!
vedi come storpiato è Mäometto! Dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e però son fessi così.
Un diavolo è qua dietro che n’accisma sì crudelmente, al taglio de la spada rimettendo ciascun di questa risma,
quand’ avem volta la dolente strada; però che le ferite son richiuse prima ch’altri dinanzi li rivada.
Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse, forse per indugiar d’ire a la pena ch’è giudicata in su le tue accuse?».
«Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena», rispuose ’l mio maestro, «a tormentarlo; ma per dar lui esperïenza piena,
a me, che morto son, convien menarlo per lo ’nferno qua giù di giro in giro; e quest’ è ver così com’ io ti parlo».
Più fuor di cento che, quando l’udiro, s’arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia, oblïando il martiro.
«Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi, tu che forse vedra’ il sole in breve, s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, ch’altrimenti acquistar non saria leve».
Poi che l’un piè per girsene sospese, Mäometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese.
Un altro, che forata avea la gola e tronco ’l naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch’una orecchia sola,
ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,
e disse: «O tu cui colpa non condanna e cu’ io vidi su in terra latina, se troppa simiglianza non m’inganna,
rimembriti di Pier da Medicina, se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina.
E fa saper a’ due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l’antiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d’un tiranno fello.
Tra l’isola di Cipri e di Maiolica non vide mai sì gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor che vede pur con l’uno, e tien la terra che tale qui meco vorrebbe di vedere esser digiuno,
farà venirli a parlamento seco; poi farà sì, ch’al vento di Focara non sarà lor mestier voto né preco».
E io a lui: «Dimostrami e dichiara, se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella, chi è colui da la veduta amara».
Allor puose la mano a la mascella d’un suo compagno e la bocca li aperse, gridando: «Questi è desso, e non favella.
Questi, scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che ’l fornito sempre con danno l’attender sofferse».
Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curïo, ch’a dir fu così ardito!
E un ch’avea l’una e l’altra man mozza, levando i moncherin per l’aura fosca, sì che ’l sangue facea la faccia sozza,
gridò: «Ricordera’ti anche del Mosca, che disse, lasso!, “Capo ha cosa fatta”, che fu mal seme per la gente tosca».
E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»; per ch’elli, accumulando duol con duolo, sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa ch’io avrei paura, sanza più prova, di contarla solo;
se non che coscïenza m’assicura, la buona compagnia che l’uom francheggia sotto l’asbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia, un busto sanza capo andar sì come andavan li altri de la trista greggia;
e ’l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna: e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».
Di sé facea a sé stesso lucerna, ed eran due in uno e uno in due; com’ esser può, quei sa che sì governa.
Quando diritto al piè del ponte fue, levò ’l braccio alto con tutta la testa per appressarne le parole sue,
che fuoro: «Or vedi la pena molesta, tu che, spirando, vai veggendo i morti: vedi s’alcuna è grande come questa.
E perché tu di me novella porti, sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al re giovane i ma’ conforti.
Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli; Achitofèl non fé più d’Absalone e di Davìd coi malvagi punzelli.
Perch’ io parti’ così giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch’è in questo troncone.
Così s’osserva in me lo contrapasso».
Inferno · Canto XXIX
La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie sì inebrïate, che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate? perché la vista tua pur si soffolge là giù tra l’ombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto sì a l’altre bolge; pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge.
E già la luna è sotto i nostri piedi; lo tempo è poco omai che n’è concesso, e altro è da veder che tu non vedi».
«Se tu avessi», rispuos’ io appresso, «atteso a la cagion per ch’io guardava, forse m’avresti ancor lo star dimesso».
Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, e soggiugnendo: «Dentro a quella cava
dov’ io tenea or li occhi sì a posta, credo ch’un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa».
Allor disse ’l maestro: «Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;
ch’io vidi lui a piè del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito, e udi’ ’l nominar Geri del Bello.
Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte, che non guardasti in là, sì fu partito».
«O duca mio, la vïolenta morte che non li è vendicata ancor», diss’ io, «per alcun che de l’onta sia consorte,
fece lui disdegnoso; ond’ el sen gio sanza parlarmi, sì com’ ïo estimo: e in ciò m’ha el fatto a sé più pio».
Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l’altra valle mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo.
Quando noi fummo sor l’ultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra,
lamenti saettaron me diversi, che di pietà ferrati avean li strali; ond’ io li orecchi con le man copersi.
Qual dolor fora, se de li spedali di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti ’nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n’usciva qual suol venir de le marcite membre.
Noi discendemmo in su l’ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista più viva
giù ver’ lo fondo, la ’ve la ministra de l’alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra.
Non credo ch’a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l’aere sì pien di malizia,
che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo,
si ristorar di seme di formiche; ch’era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle l’un de l’altro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone.
Io vidi due sedere a sé poggiati, com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al piè di schianze macolati;
e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volontier vegghia,
come ciascun menava spesso il morso de l’unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso;
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